Perché è necessario socializzare le piattaforme tecnologiche

E’ forse giunto il tempo di agire concretamente sui meccanismi che circa cinquanta anni fa il Club di Roma e Aurelio Peccei avevano evidenziato. Infatti, oggi più che mai, la consapevolezza dei limiti dello sviluppo economico e del rallentamento del progresso civile e sociale, come avrebbe sottolineato Pier Paolo Pasolini, sono intrinsecamente interdipendenti con la necessità di rispettare l’equilibrio ecologico. Occorre, pertanto, ricercare una metodologia di approccio sistemico in grado di conciliare lo sviluppo economico con il progresso civile e sociale e la sostenibilità ambientale del Pianeta. Quindi è essenziale essere consapevoli dell’interazione che intercorre tra queste tematiche. Perché l’intreccio perverso che la crescita squilibrata della popolazione mondiale, lo spreco di risorse non rinnovabili, l’accelerazione della tecnologia, la finanziarizzazione dell’economia, l’innalzamento della temperatura media, le migrazioni estreme e la crescita delle disuguaglianze, può determinare un punto di rottura tale da provocare l’interruzione della crescita e il collasso dell’intero ecosistema. Se a tutto questo aggiungiamo i rischi legati agli algoritmi proprietari, alla rivoluzione digitale, al monopolio esercitato dai possessori delle piattaforme social e al contrasto tra il capitalismo dei territori e quello delle piattaforme stesse, ci rendiamo conto che l’intelligenza artificiale potrebbe prevalere sull’intelligenza relazionale e che scelte decisive per il destino dell’umanità siano compiute non dagli Stati sovrani, ma da alcuni individui dotati di poteri straordinari. Un primo elemento da considerare è che oggi non dobbiamo più parlare di semplice tecnologia, ma dobbiamo sottolineare che esistono i “padroni” della tecnologia e che grazie a questa posizione di privilegio, possono determinare scelte che fino a pochi anni fa erano di esclusiva competenza degli Stati. Tutto questo è la conseguenza di un processo economico globale che, come afferma Richard Baldwin, prima ha riguardato solo ciò che acquistavamo o vendevamo e oggi, invece, tutto ciò che facciamo. Non è un caso che poche settimane fa i vertici di Facebook abbiano esposto i loro progetti in relazione alla governance e all’enforcement sui contenuti che i circa 2,5 miliardi di utenti pubblicano sulla loro piattaforma. Hanno quindi disegnato un percorso che punta ad investire ancora sulle norme che stabiliscono quali contenuti potranno essere pubblicati e sull’intelligenza artificiale come strumento identificativo per la rimozione dei contenuti considerati incompatibili con gli standard stabiliti. Apparentemente tutto questo è ragionevole e giustificato con la necessità di evitare un palcoscenico planetario ad opinioni scorrette, razziste e sessiste che incitano all’odio e al conflitto. Le conseguenze, però, rischiano di essere democraticamente inaccettabili in quanto parrebbero prefigurare una sorta di dichiarazione di indipendenza di Facebook dalle norme degli Stati ai quali appartengono gli utenti. In questo momento storico che si caratterizza come società dei dati e della comunicazione la condivisione dei contenuti e delle informazioni può essere considerata una componente fondamentale del nostro vivere civile e determina la più istintiva modalità di esercizio dei nostri diritti prioritari. Se le regole che stabiliscono quali contenuti possono essere scambiati sono automaticamente definite da un’azienda privata che organizza e gestisce un “ sostanziale tribunale”il ruolo degli Stati e dell’intero sistema giudiziario rischia di essere irrilevante, permettendo alla piattaforma social di confermare la propria autarchia e discrezionalità. E’ uno scenario inaccettabile quello che permetterà ai giganti del web di stabilire autonomamente le norme sui contenuti che transitano sulla rete, perché questo farà abdicare gli Stati alle loro funzioni fondamentali di intermediazione. Non si può accettare che dal momento che non esiste un tribunale al Mondo in grado di valutare in tempo reale la legittimità della pubblicazione sulla rete di miliardi di contenuti, si scelga di utilizzare la piattaforma social per farlo, grazie ai suoi “giudici”, ai suoi algoritmi e i suoi esperti “indipendenti”. Ben altro dovrebbe essere l’approccio per evitare che la potenza di calcolo, privata, si trasformi in “dominio per conquista” e di fronte a problemi complessi si percorrano strade semplificatorie, ma rischiose per la democrazia e la responsabilità che gli Stati hanno nei confronti dei cittadini che non possono essere considerati semplici “utenti”. Infatti l’algoritmo non può essere onnipotente e non è solo uno spazio pubblico, ma un vero bene comune non negoziabile; perché l’intelligenza artificiale che con esso si alimenta produce processi di disintermediazione digitale che hanno sconvolgenti impatti sociali sul lavoro e le relazioni. Gli Stati dovrebbero quindi tornare ad esercitare un controllo serrato sui giganti del web per evitare che automazione e velocità (efficienza!) annullino l’obbligo della ripartizione delle risorse che le piattaforme hanno incamerato usufruendo, monopolisticamente, del bene collettivo della rete (efficacia!). A loro si deve richiedere l’applicazione delle norme che da tempo regolano l’informazione e la comunicazione nella società globale e di mettere le loro competenze, i loro algoritmi proprietari, resi pubblici, e le loro smisurate risorse economiche a disposizione dei giudici e delle autorità nazionali perché possano disporre delle risorse indispensabili per fronteggiare le incongruenze e le falsità dell’informazione fattasi planetaria. Questo perché non si può accettare che aziende private si approprino di funzioni collettive, sostituendosi a governi, parlamentari e giudici, a prescindere dalla buona fede, in merito a tematiche che sono l’essenza stessa della democrazia rappresentativa.

Luigi Pastore