E’ una torrida giornata di fine agosto, di quelle in cui la rinomata canicola estiva giapponese suggerirebbe di chiudersi in casa, l’aria condizionata accesa al massimo e un paio di bibite ghiacciate fra le mani.
Invece, sfidando le temperature tropicali, già insopportabilmente umide fin dalle prime ore del mattino, ci troviamo alla stazione ferroviaria di Shinjuku a Tokyo, snodo fondamentale per i trasporti della capitale giapponese, le cui linee ferroviarie e metropolitane si estendono a perdita d’occhio.
Dopo una breve ricerca nella labirintica stazione, individuiamo il binario del treno regionale sul quale stiamo per salire. Fa talmente caldo che, da lontano, la sagoma dei vagoni sembra “fumare” dal terreno, come nelle visioni desertiche immortalate dalle pellicole di Sergio Leone.
Quel piccolo treno regionale ci porterà a Tochikubo , piccola località di campagna situata nella prefettura di Tochigi, a nord di Tokyo, dove cercheremo di vedere, di toccare con mano, la crisi demografica che sta, ogni anno di più, attanagliando il Giappone.
“Crisi demografica? Dove? Qui?”, si chiede, immancabilmente, il viaggiatore occasionale che si ritrovi a visitare il Sol Levante, in quanto, visitando sempre e solo – come logico che sia – le aree ad alta concentrazione turistica di questo remoto Paese dell’Asia Orientale, non riesce a capacitarsene, date le folle oceaniche alle quali, in ogni dove, va incontro.
In grandi città come Tokyo, Kyoto e Osaka, in effetti, la popolazione numerosa e la massiccia presenza di bambini sui mezzi pubblici, nei grandi magazzini e nelle strade a tutto farebbe pensare fuorché a un Paese in progressiva crisi demografica.
Eppure, sì, stando al parere dei più qualificati demografi internazionali, il Giappone è un Paese che invecchia ogni anno di più, nel quale le nascite non riescono a tenere il passo dei decessi, e dove il numero di ultracentenari è il più alto del mondo.
Non appena il treno della compagnia privata Odakyu lascia la stazione di Shinjuku e, lentamente, scivola via dal centro cittadino e, poi, dai sobborghi di periferia, si apre, dinanzi ai nostri occhi, il paesaggio della campagna giapponese.
Il contrasto con ciò che ci siamo appena lasciati alle spalle è sorprendente, quasi irreale.
Tokyo, mega capitale del Paese-arcipelago da venti milioni di abitanti, con le sue infinite ferrovie, i milioni di insegne luminose, le sue folle oceaniche, ha, negli ultimi trent’anni, catalizzato sempre più l’attenzione dell’opinione pubblica e della cultura pop internazionale.
Manga, fumetti e animazione hanno contribuito a espanderne all’estero il “brand”, rendendola, agli occhi di pubblicitari e cineasti, una delle capitali più cool e futuristiche del mondo.
Il suo irripetibile alternarsi di iper-modernità e di antichità, di lindore e pulizia affiancati da piccoli anfratti fumosi e odorosi “di Asia”, di grattacieli a vetro e di minuscoli santuari scintoisti a essi confinati, arrivò a ispirare, trentasei anni fa, Ridley Scott, che proprio da Tokyo trasse ispirazione per rappresentare su schermo New Los Angeles, la distopica megalopoli teatro del suo “Blade Runner”.
La vita di campagna nipponica, invece, scorre lungo binari del tutto differenti, in senso sia quantitativo, che qualitativo.
Quantitativo, perché i ritmi della vita quotidiana, lontano dalle grandi metropoli, si fanno molto più diradati, e il rumore di altoparlanti, annunci pubblicitari su maxischermi e dello sferragliare dei treni di superficie, lascia spazio al silenzio, al gracchiare dei corvi e al canto delle cicale, vera colonna sonora, quest’ultima, di tutto il periodo estivo giapponese.
Qualitativo, invece, perché, lasciatasi alle spalle la perfetta macchina organizzativa delle grandi metropoli, con i loro treni lindi, le stazioni ferroviarie – per dimensioni, il più delle volte, comparabili a tante, piccole, “città nella città” – rifornite di ogni tipo di merce e prodotto e i gabinetti pubblici dotati di erogatori di profumo e di bidet automatici, si va incontro a un mondo ben più arretrato, meno servito, isolato e, per gli elevatissimi standard di pulizia giapponesi, perfino sporco in alcuni frangenti.
Con lo sferragliare dei freni e il rallentamento della locomotiva, ci viene annunciato, dall’altoparlante, che stiamo per arrivare in stazione.
Appena scesi, e usciti dal minuscolo edificio che ospita i due unici binari dei treni che passano per questa piccola cittadina, iniziamo a camminare lungo le sue poche vie abitate.
Siamo a circa 100 chilometri da Tokyo, ma l’impressione, di primo acchito, è quella di ritrovarsi catapultati in un altro mondo, in un’altra epoca storica.
Capiamo ben presto, osservando il paesaggio – sia fisico, che antropologico – che ci circonda, che i giovani se ne sono tutti andati nelle grandi città, e che non torneranno più.
Ovunque lo sguardo si vada a posare, infatti, si vedono solo persone di media o di terza età, indaffarate e laboriose, come tutti i giapponesi sanno essere, nel portare avanti le attività della loro vita quotidiana.
Entrati in un piccolo negozio di alimentari per acquistare una bibita ghiacciata, incontriamo il Sig. Kunio Noguchi, 75 anni di età portati benissimo, agricoltore, che, curioso, ci chiede che cosa siamo venuti a fare in questa località così poco attraente e per nulla turistica.
A seguito della nostra risposta, che siamo interessati a vedere, a toccare con mano – per quanto possibile – quello che si legge sui giornali circa l’invecchiamento della popolazione del Sol Levante, Noguchi-San ci racconta, brevemente, la storia della sua famiglia: è sposato con Nobuko, 71 anni, e ha tre figlie femmine. Tutte e tre vivono nella capitale, a Tokyo, da diversi anni ormai.
Ci spiega che no, non prova alcun sentimento di delusione o rammarico per il fatto che nessuna delle sue tre figliole abbia voluto portare avanti la piccola impresa agricola di famiglia, la quale fornisce, peraltro, latte e derivati a un’impresa casearia locale. “La vita di un agricoltore”, dice, “è faticosa e poco redditizia, quindi capisco e rispetto la loro scelta”.
Quando parla della sua terra, delle sue risaie e dei suoi animali, però, gli occhi di Noguchi-San s’illuminano di entusiasmo, e una malcelata tristezza fa capolino quando si chiede, malinconico, che ne sarà della vecchia casa colonica che i suoi nonni avevano faticosamente costruito, delle terre che centinaia di volte egli ha arato e coltivato e, soprattutto, della piccola località natale che tanto ama.
La malinconia di Noguchi-San al pensiero che la vita di campagna, per come egli l’ha vissuta e conosciuta, possa, un giorno, scomparire, rappresenta un sentimento diffuso presso la popolazione giapponese nata subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Per queste persone, cresciute lontane – geograficamente e culturalmente – dall’urbanizzazione incontrollata che ha investito il Paese a cavallo degli anni ’50 e ’60, il rapporto con il proprio paese natale e, soprattutto, con la terra e la coltivazione della stessa, rappresenta un qualcosa di viscerale, di sacro, in quanto strettamente correlato con i riti e le tradizioni dello “Shinto” (“La via degli dèi”), l’autoctono culto animistico dell’arcipelago giapponese, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
La località di Tochikubo non rappresenta un’anomalia in Giappone, dato che la grande maggioranza della popolazione nazionale vive e lavora nella cintura industriale composta dal trittico Tokyo – Nagoya – Osaka, oramai diventato quasi un unico, sterminato cluster urbano, collegato dalla linea ferroviaria ad alta velocità.
Di certo v’è che le amministrazioni, sia nazionali che locali, fanno fatica a tenere il passo con il rapido avanzare dell’età media della popolazione e, di conseguenza, a ripopolare le aree rurali in via di abbandono. Anche perché, con il rapido tasso d’invecchiamento e il contemporaneo crollo delle nascite, il numero di cittadini in età lavorativa e – soprattutto – contributiva, continua a scendere, rendendo sempre più difficile reperire le risorse economiche necessarie a mantenere una società esigente, ricca ma vecchia.
Sia chiaro: il Giappone non rappresenta un unicum. Tante altre regioni del mondo industrializzato si troveranno a fare i conti, presto o tardi, con problemi analoghi, poiché anche esse vanno invecchiando e urbanizzandosi sempre più.
Due esempi su tutti, al di fuori del Giappone, possono essere di aiuto per comprendere la portata del problema su scala globale: gli Stati Uniti e la Cina.
I primi, infatti, si trovano da anni a dover far fronte al calo demografico dei c.d. Wasp (“white, anglo-saxons, protestants”), ovvero gli americani “bianchi”, discendenti diretti di quegli europei i quali, emigrati nel Nuovo Mondo fra il ‘600 e il ‘700, hanno contribuito, più di ogni altra etnia, a creare dal nulla gli Stati Uniti come oggi li conosciamo.
Il calo demografico degli Wasp, peraltro, è in netto contrasto con l’aumento della popolazione nera, asiatica e ispanica in tutto il territorio americano.
Per quanto riguarda il fu Celeste Impero, invece, la sua dirigenza si è resa conto che la politica del figlio unico – varata da Deng Xiaoping nel 1979 per contenere un incremento della popolazione che, all’epoca, appariva fuori controllo – sta avendo effetti deleteri e contrari a quelli sperati. La società cinese, sempre più ricca, consumistica ed esigente, ha drasticamente ridotto il proprio tasso di natalità, e il politburo si è tardivamente accorto che, se non sarà in grado di dare un’inversione di rotta a questa tendenza, il sistema economico e sociale, per come si è sviluppato, non sarà sostenibile sul lungo periodo.
Per cause e in modi differenti, pertanto, le tre nazioni che compongono il podio delle maggiori potenze economiche mondiali – Stati Uniti, Cina e Giappone – si trovano a far fronte al medesimo, titanico problema: come ridare linfa verde alla propria popolazione.
Nessun’altra regione o Paese del mondo, però, sta andando incontro a tali problemi sociali alla stessa velocità del Sol Levante. Pertanto, le risposte e soluzioni che il governo nipponico saprà fornire potrebbero essere indicative per comprendere l’andamento demografico nel resto del mondo industrializzato.
A tal proposito, in un controverso libro pubblicato nel 2014, “Local Extincions”, Hiroki Masuda, ex governatore della provincia di Iwate (nell’estremo nord dell’Honshu, la principale e più grande isola dell’arcipelago giapponese), predisse che circa 896 fra comuni e villaggi di piccole dimensioni sono destinati a scomparire entro il 2040. Non solo: secondo i suoi studi, la popolazione nipponica è destinata a scendere da un picco di 128 milioni – fatto registrare nel 2010 – a 97 milioni entro il 2050.
Le ragioni che spingono i giovani a lasciare la provincia e la campagna in favore delle grandi città sono le medesime che si verificano nel resto del mondo industrializzato: da un lato, le opportunità lavorative sono quasi tutte concentrate nelle metropoli, e, dall’altro, la tipologia di lavori offerti dalla vita rurale richiede, a causa della sempre più imponente automazione dei processi produttivi, un numero di lavoratori inferiore rispetto soltanto a vent’anni fa.
Una prima, ovvia soluzione per arginare o, quantomeno, rallentare il processo d’invecchiamento del Sol Levante – stante il crollo di un terzo del tasso di natalità registratosi fra il 1972 e il 2015 – sarebbe quello di aprire maggiormente il Paese all’immigrazione, importando così manodopera in grado di svolgere tutte quelle attività lavorative che i giapponesi non sono più intenzionati a portare avanti.
Per tradurre in cifre lo scarso impatto degli immigrati sulle dinamiche sociali del Paese-arcipelago, basti pensare che solamente l’1.8 percento della popolazione nazionale è di origine straniera, rispetto al 13 percento degli Stati Uniti.
Nel corso degli anni, le proposte parlamentari e legislative per incrementare il numero di immigrati nel Paese sono, tuttavia, finite nel nulla. Questo in quanto la grande maggioranza della popolazione giapponese ritiene che l’identità e la cultura nazionali siano strettamente correlate all’omogeneità razziale, e i sondaggi periodicamente condotti in tal senso mostrano con costanza che i due terzi dei cittadini nipponici sono contrari all’apertura nei confronti dell’immigrazione di massa e, soprattutto, “poco qualificata”.
Il problema di come invertire la rotta e ridare gioventù al Paese-arcipelago sta già togliendo il sonno ai funzionari governativi di Tokyo, e gli effetti delle politiche che verranno messe in atto, anche qualora queste ultime avessero successo, non si vedranno prima di una ventina d’anni, almeno.
Sono le sei e mezza di sera, il sole sta già tramontando.
Le sfumature di colore arancione regalate dalla stella che va addormentandosi verso ovest investono il paesaggio, le case, e si riflettono nei corsi d’acqua e nelle risaie, creando uno scenario cromatico al quale è assai difficile restare indifferenti.
Prima di tornare alla piccola stazione ferroviaria e salire sul treno che ci riporterà a Tokyo, andiamo in cerca di Noguchi-San per un ultimo saluto.
Al nostro ringraziamento per aver deciso di condividere con un “gaijin” – uno straniero – la storia della sua famiglia, risponde che, in realtà, ciò che più lo angoscia è che un’intera identità culturale, un intero stile di vita, possano scomparire del tutto quando la sua generazione non ci sarà più. “Senza di noi, e senza più giovani a popolare questi luoghi, chi sarà più in grado di coltivare la terra senza l’ausilio delle macchine, di tessere vestiti a mano e di distillare il sakè nell’antico modo?” si chiede sconsolato. ”E’ sempre più arduo e raro poter trasmettere la nostra conoscenza contadina alle nuove generazioni”, chiosa.
Ci inchiniamo, come è d’obbligo sociale in Giappone quando s’incontra o ci si commiata da una persona, ricambiati. Abbiamo soltanto un’ultima domanda per Noguchi-San: se non è preoccupato di cosa ne sarà della vecchia casa colonica di famiglia, stante la volontà delle sue tre figlie di rimanere a vivere nella grande e moderna capitale, Tokyo.
Fissando il tramonto, gli occhi segnati dalle rughe e dall’età ma sempre vigili, vispi e pieni di esperienze, di saggezza e di vita vissuta, Noguchi-San fa un profondo sospiro, riflette qualche istante e poi ci risponde che “no, non sono più di tanto preoccupato. Amo la mia casa, è intrisa della storia della mia famiglia; ma le mie figlie hanno la loro vita, e io rispetto le loro scelte”.
Di più: il suo auspicio, piuttosto che immaginare l’amatissima casa di famiglia, piena dei ricordi, dei suoni e dei giochi della sua infanzia e, successivamente, dell’infanzia delle sue tre bambine, abbandonata all’incuria e alle intemperie del tempo, è che essa venga abbattuta, in modo da poter restituire la terra, che per generazioni ha generosamente sfamato la sua famiglia, ai suoi veri proprietari, i “kami”, gli dèi.
Buon viaggio, Noguchi-San. Qualunque sia il tuo viaggio. Qualunque sia la tua meta.
Edoardo Quiriconi