Elio Vittorini dal convegno di Weimar del ‘42 al Sacro Monte di Varese fino alla Liberazione

Il 24 ottobre del 1941 si svolse a Weimar il congresso annuale degli scrittori tedeschi a cui parteciparono, su invito del ministro per la propaganda del Reich Joseph Goebbels, 37 scrittori provenienti da 15 paesi europei, Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Norvegia, Olanda, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera ed Ungheria, con lo scopo di creare una Unione Europea degli Scrittori. In quel momento la Germania di Hitler trionfava su tutti i fronti di guerra, in corso dal 1939, e Goebbels, memore del suo dottorato in letteratura del romanticismo, e comunque uno dei gerarchi più colti del regime nazista, voleva gettare le basi per una intesa intellettuale comune nella nuova Europa pangermanica che si andava delineando a seguito delle conquiste militari tedesche. Il fine propagandistico era quello di mostrare il contributo della Germania alla vita letteraria ma allo stesso tempo dare opportuni contenuti al Nuovo Ordine Europeo vagheggiato dal Führer, rafforzando e legittimando il predominio germanico sull’Europa con l’intento di spostare l’asse culturale europeo da Parigi, che lo deteneva da oltre un secolo, a Berlino. In quest’ottica nel 1941 erano state create diverse associazioni internazionali che riguardavano vari settori, dal cinema fino alla federazione europea dei giocatori di scacchi. A Weimar si doveva ridefinire l’universo letterario e culturale della nuova Europa, doveva nascere un nuovo modello di letteratura portatrice dei canoni del nazifascismo realizzato dagli scrittori che erano stati scelti ed invitati per le loro simpatie o almeno condiscendenza verso i regimi politici di Italia e Germania. Tra questi il premio Nobel norvegese Knut Hamsun che aveva inviato un telegramma di supporto all’iniziativa. A Weimar, città scelta come icona di una irripetibile stagione letteraria incarnata da Goethe, Schiller ed Herder, erano arrivati dalla Francia sette scrittori antisemiti e nazionalisti tra cui Pierre Drieu La Rochelle, poi suicidatosi il 15 marzo 1945, e Robert Brasillach, incarcerato dopo la liberazione e condannato a morte e fucilato il 6 febbraio 1945; dall’Italia erano giunti solo due rappresentanti di medio livello, il filosofo fascista Alfredo Acito e l’accademico Arturo Farinelli, anche se, da parte tedesca, erano stati invitati scrittori come Bontempelli, Cecchi, Papini, Govoni e Bacchelli che era stato anche proposto come vicepresidente dell’associazione ma aveva rinunciato alla nomina.
Come presidente dell’Unione degli Scrittori Europei fu scelto da Goebbels il noto romanziere e poeta Hans Carossa, allora sessantatreenne, che viveva tranquillamente in Baviera e non era iscritto al partito nazista, e quindi, come apolitico, poteva meglio legare fra loro artisti più liberali con quelli fortemente politicizzati. Carossa tentò prima di defilarsi ma poi finì per accettare l’incarico. Nel discorso del 26 ottobre 1941 Goebbels dichiarò che “Ancora una volta le culture nazionali (Kulturvölker) più antiche e più valide del continente europeo hanno camminato per difendere ciò che avevano costruito in due millenni. Ancora una volta i corpi dei nostri soldati si ergono a difesa di un’antica eredità culturale che, illuminata dalla luce dell’umanesimo, deve essere eternamente mantenuta”(1).
Malgrado la fama di Carossa, il congresso ebbe un modesto successo anche se Goebbels annotò nel suo diario che la riunione era pienamente riuscita, che credeva nelle possibilità del suo progetto e che “bisognava battere il ferro finché è caldo”.
Il congresso fu ripetuto tra il 7 e l’11 ottobre del 1942 con la partecipazione di 47 scrittori stranieri. L’interesse italiano, assai limitato nel 1941, fu più importante anche se, come appare dai documenti, di scarsa convinzione. Giovanni Papini accettò la vicepresidenza e tenne un infuocato discorso sul cattolicesimo civilizzatore che non piacque ai nazisti, gli altri scrittori invitati erano Riccardo Bacchelli, Arturo Farinelli, Francesco Pastonchi, Bonaventura Tecchi, Mario Sertoli, Alfredo Aciti, Enrico Falqui, Corrado Alvaro, Giulio Cogni, Giaime Pintor ed Elio Vittorini. L’invito era stato esteso anche a Eugenio Montale e ad Antonio Baldini che rifiutarono con varie scuse. Si defilarono subito anche Tecchi, Pastonchi, Bacchelli ed Alvaro. Il ventitreenne Giaime Pintor, già noto per i suoi studi sulla letteratura tedesca e le traduzioni delle poesie di Rilke, collaborava alla rivista “Primato” di Bottai, per la quale avrebbe dovuto scrivere “una nota sulle conclusioni e sul significato” del Convegno (2). All’inizio della riunione lo scrittore tedesco Gerhard Schumann, dopo avere inneggiato alla visione multinazionale della cultura europea, aveva tuonato sulla necessità di difenderla dal furore delle orde provenienti dalle steppe, aggiungendo che la nostra visione contrastava il vuoto culturale dei nemici dell’Asse ed andava difesa “dall’americanismo e dal bolscevismo”. Intanto la guerra volgeva al peggio, la campagna di Russia si era arenata, e l’”immancabile vittoria finale” dell’Asse era sempre più lontana ed improbabile. Il resoconto di Pintor parlava di un incontro culturale “privo di conclusioni” e “senza alcun significato”, e seppure molto asettico e cauto, fu respinto dal condirettore di “Primato” Giorgio Vecchietti in quanto politicamente inaccettabile. La relazione del prof. Mario Sertoli al Minculpop, il Ministero per la Cultura Popolare, non avendo vincoli di censura, fu invece assolutamente impietosa affermando “che il Convegno più che di gente d’arte o di pensiero, aveva l’aspetto di una adunata folkloristica ed etnografica tra balcanica e scandinava, piccolo mondo da villaggio letterario, di poeti contadini e di scrittori di provincia, fiera di beneficenza per uomini oscuri o sagra del «letterato ignoto», intorno alla quale erano convenuti a vagare i soliti giramondo, cosiddetti osservatori e giornalisti, compresi tre o quattro francesi che sorridevano correttamente, ma perfidamente” (2). Inoltre riferisce che Goebbels nel suo discorso finale non appariva più «il tribuno più vulcanico del nazismo, il polemista impetuoso abituato a travolgere le masse […] e a strappare ovazioni alle folle anonime». E’ palese un sentimento di incertezza e di smarrimento. Goebbels aveva ripetutamente affermato “ che questa che si combatte non è solo una guerra di forze materiali ma soprattutto un conflitto di spiriti”. Ed al tema tragico della guerra si richiama la conclusione dell’articolo censurato di Pintor: ” Così la guerra, che per qualche giorno era stata tenuta lontana dai discorsi cosmopoliti, ma che era ancora alta su quegli uomini e dominava il loro avvenire, tornò fra noi come l’ospite principale”. E conclude: “nella città vuota di ospiti e priva di bandiere i simboli della crisi apparvero più scoperti e palesi […]. Con Vittorini che conosce «il mondo offeso» fu facile parlare di quegli argomenti che un congresso della letteratura europea non può affrontare; della letteratura come onesta vocazione, e soprattutto dell’Europa: una cosa che ci pareva troppo grande e incerta e afflitta perché trecento signori riuniti a Weimar nell’ottobre 1942 potessero parlare a suo nome” (2). Il giudizio di Pintor sul convegno coincide con quello espresso da Sertoli; in una lettera ai genitori aveva scritto che “gli scrittori europei riuniti a Weimar costituiscono il più numeroso insieme di cretini che io abbia mai visto insieme….”(1). Giaime Pintor, passato subito dopo all’antifascismo militante, parteciperà alla resistenza morendo, a 24 anni, il primo dicembre 1943, dilaniato da una mina.
Malgrado lo scarso successo della riunione, fu pianificato un terzo incontro a settembre del 1943, che non ebbe mai luogo perché il rombo dei cannoni sovietici, anche se ancora indistinto, aveva riportato alla realtà le ambizioni egemoniche di Goebbels.

Elio Vittorini apparteneva a quella corrente intellettuale definita come “fascismo di sinistra”, confermata con il suo romanzo “Conversazione in Sicilia”, apparso a puntate tra il 1938 e il 1939 sulla rivista Letteratura, che rappresentò una provocatoria novità letteraria rispetto alla stagnante produzione dell’epoca, ma soprattutto l’inizio di una letteratura neorealista impegnata ed antifascista. Stampato in volume in 355 copie nel 1941 col titolo “Nome e lagrime” fu ristampato da Bompiani nello stesso anno col titolo originale in 5000 copie subito esaurite, e poi ristampato prima che iniziassero a manifestarsi le accuse di disfattismo da parte dei censori fascisti. Il celebre incipit infatti, “Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dire che erano astratti, non eroici, non vivi; furono, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino” (3), era quanto di più lontano si potesse immaginare dalla reboante retorica fascista. Ne fa fede una recensione anonima su “Il Popolo d’Italia” del 30 luglio 1942 dal titolo “Una sporca conversazione” che recita “Per ottenere ciò che voleva, cioè una società materialista imbecille atea e pervertita, la giudeo-massoneria aveva bisogno di una letteratura mediocre, pornografica, erotica. Quella letteratura venne. /…./ La definizione di letteratura corruttrice, che noi diamo a tal genere di romanzo, non è per noi puramente immaginaria /…./ E’ forse con queste opere che dopo vent’anni di fascismo, ci prestiamo a far grande l’Italia anche nel campo dello spirito?”. Il libro, colpito da sequestro, fu ristampato clandestinamente fino ad una sesta edizione apparsa poco prima dell’aprile del 1945.
Sia Pintor che Vittorini non erano simpatizzanti nazisti come si potrebbe pensare data la loro partecipazione al Convegno di Weimar. Pintor in una lettera spiega che l’invito a lui, come germanista, faceva piacere: “ Penso che la cosa sarà divertente”, gli si offriva infatti l’opportunità di studiare un mondo che era al centro dei suoi interessi di studio anche se, come Vittorini, aborrisse la mentalità nazista. C’è da aggiungere poi che nel 1942 nessuno era ancora a conoscenza della indescrivibile realtà dei campi di sterminio e delle atrocità connesse. Fu comunque un passo falso e Vittorini lo tenne nascosto almeno fino a quando, nel 1950, verrà pubblicato l’articolo di Pintor, rifiutato da “Primato” e ritrovato tra le sue carte, con la cronaca del convegno e dei suoi partecipanti. Dopo il congresso di Weimar Vittorini realizza che il nazifascismo non può essere in alcun modo un ideale di riferimento e decide di entrare in contatto col partito comunista per passare all’antifascismo clandestino. Grazie all’avvocato siciliano Salvatore Di Benedetto, organizzatore della Resistenza in Lombardia, conosciuto nell’ambito dell’editore Bompiani, Vittorini si occupa di stampa clandestina, contatti tra i gruppi partigiani, trasporto di armi e munizioni.
Salvatore Di Benedetto abitava a Milano in zona Porta Nuova, nelle vicinanze della casa editrice Bompiani; la sua casa era diventata il centro delle attività clandestine per la Lombardia oltre che rifugio per i ricercati dalla polizia fascista come Pietro Ingrao. Vittorini fu incaricato di portare in Sicilia un appello alla rivolta nell’imminenza dello sbarco alleato nell’isola, scritto da Di Benedetto e stampato in casa di Albe Steiner che sarà poi il grafico della rivista “Il Politecnico” di Vittorini nell’immediato dopoguerra. Con la scusa di visitare la madre malata, Vittorini prese contatto con i capi comunisti dell’antifascismo siciliano; appena rientrato a Milano ai primi di luglio, sentì per radio con grande emozione la notizia dello sbarco degli americani sulla sua isola.
Nella notte del 25 luglio, seguente alla deposizione di Mussolini, Di Benedetto, che si era spostato in una casa di via Vallazze per ragioni di sicurezza, vide la gente precipitarsi in strada correndo ed urlando in stato di grande agitazione. Si affrettò verso la casa di Porta Nuova dove dormivano Ingrao ed altri amici che, ignari di tutto, lo presero per matto quando, aperta la finestra, lo sentirono sbraitare: “Abbasso Mussolini, a morte il fascismo”. Di Benedetto aveva raccontato a Enzo Papa che allora “ scesero tutti in strada per unirsi alla folla e per incontrare altri compagni. Ai Giardini incontrarono Elio Vittorini e Giansiro Ferrata consapevoli degli avvenimenti, e tutti insieme si diressero verso piazza dei Mercanti dove già bruciavano in un falò tutto quello che dalla Federazione Fascista veniva buttato giù dalla furia devastatrice” (5). Si decise di organizzare la folla e preparare un comizio per l’indomani a Porta Venezia, compito che fu svolto da Vittorini appoggiandosi alla sede della Bompiani per fare stampare manifesti e volantini, ed utilizzando un furgoncino della Bompiani con microfono ed altoparlanti. Nel pomeriggio del 26 luglio, Vittorini e gli altri compagni, in testa ad una folla che andava man mano crescendo, passarono davanti al carcere di San Vittore reclamando la liberazione dei prigionieri politici, per raggiungere poi Porta Venezia dove Ingrao, salito sul furgoncino, improvvisò un discorso sulla necessità della pace e della rottura dell’alleanza con la Germania. Da lontano si erano avvicinate delle autoblindo per disperdere la folla ma alcune donne, fra cui la toscana Anna Gentili, dipendente della Bompiani, la futura “Lidia” della resistenza valtellinese, riuscirono a fermarle ed a farle allontanare. Alla fine della manifestazione, Ferrata e Di Benedetto si riunirono nella casa di Vittorini in via Borgospesso per redigere il primo numero dell’Unità dopo l’arresto del duce. Ma improvvisamente irruppero i carabinieri che, dopo un breve interrogatorio, arrestarono Vittorini e i suoi due amici “responsabili di avere sobillato la folla e di avere svolto, organizzando il comizio, opera di disfattismo in tempo di guerra” (5). Vane furono le proteste, i tre antifascisti furono rinchiusi in una lurida camera di sicurezza della caserma di via Solferino ed il giorno dopo, ammanettati, trasferiti a San Vittore. Dopo un altro passaggio nella caserma di via Solferino furono infine portati il 27 luglio 1943 a Varese, nel carcere dei Miogni, consegnati al maresciallo Piazzolla e stipati in una minuscola cella. Qui Vittorini si lamentava di dolori al fegato e raccontava del suo precoce matrimonio nel 1927 a 19 anni con Rosa Quasimodo, sorella del poeta Salvatore, di tre anni più anziana di lui, da cui si separerà nel 1951, e dei suoi due figli; inoltre discuteva animatamente con Giansiro Ferrata senza che Di Benedetto intervenisse specialmente quando parlavano di Ginetta Varisco, ancora moglie di Ferrata ma che stava già con Vittorini. A Varese Di Benedetto era in contatto con Calogero Marrone, il benemerito capo dell’Ufficio Anagrafe del Comune che, dopo l’8 settembre 1943, avrebbe aiutato molti ebrei ed antifascisti ad espatriare in Svizzera fornendo loro documenti di comodo. Arrestato nel gennaio del 1944 in seguito ad una delazione, fu internato a Dachau dove morì di stenti il 15 febbraio 1945.
Dopo circa una settimana Vittorini ed i suoi amici furono riportati dal carcere dei Miogni a Milano in una cella nei sotterranei del palazzo di giustizia per essere sottoposti ad interrogatorio. Per giorni assistettero agli interrogatori di altri detenuti dalla loro cella; di notte tentavano di dormire sdraiati su dei giornali mentre il tanfo, le urla e le grida dei tanti reclusi divenivano insopportabili. Non furono mai interrogati, e all’’inizio di settembre, appena prima dell’arrivo dei tedeschi, il colonnello che governava la prigione ordinò di aprire la loro cella poiché, come prigionieri politici, potevano essere scarcerati.
Una volta libero, Vittorini non se la sente di andare in prima linea a combattere con i partigiani, “insofferente verso ogni forma di ordine politico, Vittorini si mostra anche poco attratto dalla guerra di Resistenza con il suo inevitabile corollario di odio e di terrore, di degrado umano” (4). Invitato dai compagni a trasferirsi a Roma, lo scrittore nella primavera del 1944 preferisce nascondersi, rifugiandosi nella villa del padre di Ginetta Varisco, la sua compagna, nel Sacro Monte sopra Varese. Come racconta lo storico Franco Giannantoni: “Con il tram era salito sino alla Prima cappella, poi aveva raggiunto a piedi casa Varisco dove era rimasto fino alla Liberazione. Da lì aveva continuato a tenere i rapporti con il Partito attraverso le staffette Gisella Floreanini (futuro ministro della Repubblica dell’Ossola) e Tiziana Bonazzola, coraggiosa gappista locale. Le uniche passeggiate, quando poteva, erano quelle compiute in bicicletta a Varese” (6). Qui, nel negozio di via Veratti di Augusto Zanzi, aveva modo di trovarsi con parecchi compagni partigiani che operavano tra Lombardia e Piemonte.
Nella villa a forma di nave dei Varisco, imprenditori milanesi, situata all’altezza della VII Cappella, Vittorini vive accanto all’adorata Ginetta, donna molto colta e determinata, che aveva conosciuto verso i primi anni trenta, l’amore di una vita dopo la separazione dalla prima moglie. La scrittrice francese Marguerite Duras, che aveva frequentato Elio e Ginetta tra il 1946 ed il 1949, così descrive la musa di Vittorini: “Era molto, molto lunga, come sono certi animali, l’antilope, la pantera, certe cagne dalle zampe lunghe, i fianchi incavati, il collo lungo, razze da caccia o da corsa. Aveva un ventre quasi piatto, appena leggermente convesso, e seni muscolosi” ed aggiunge che il loro “era un amore terribile, che avrebbe potuto atterrirci perché sempre così presente, ogni minuto, così presente e talmente definitivo da far paura come fa paura l’assoluto, perché vi costringeva a credere all’amore” (7). Elio sposerà Ginetta qualche giorno prima di morire, il 12 febbraio 1966, vinto da un tumore col quale aveva lottato per alcuni anni.
Nella quiete del Sacro Monte Vittorini scrive il romanzo “Uomini e no”, un libro sulla Resistenza partigiana a Milano intriso di molte riflessioni sul senso dell’esistenza umana in una situazione tragica come quella di una guerra civile. Bompiani pubblica il libro nel giugno del 1945, e pochi mesi dopo, il 12 settembre, esce su “L’Unità” una nota di Fabrizio Onofri, scrittore e figlio del poeta Arturo, che giudica il romanzo “ il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio”. Parecchi anni dopo, nel 1974, Giorgio Amendola rimprovererà Vittorini per “non aver saputo o voluto partecipare direttamente alla lotta partigiana” e più tardi dirà che sia lui che Alicata avevano avuto nei suoi confronti “un rapporto di rottura morale, perché durante la guerra partigiana egli si era imboscato” aggiungendo che il romanzo “forniva un quadro falso e retorico dei gappisti” (4). I commenti dei due esponenti comunisti accompagneranno a lungo il libro di Vittorini che invece aveva narrato le vicende per come le aveva viste, sentite e vissute, senza enfasi e trionfalismi, rappresentando la guerra partigiana per quello che era stata, cioè una lotta fratricida feroce, spietata e crudele, sofferta fisicamente e moralmente, lontana da quell’”ottimismo storico” che l’ortodossia comunista dell’epoca voleva trasmettere.

Francesco Cappellani

(1) B. G. Martin “European Literature in the Nazi New Order: the Cultural Politics of the European Writers Union, 1941-43”. Journal of Contemporary History 48, 2013
(2) M. C. Angelini “1942. Note in margine al Convegno degli scrittori europei a Weimar”. In “Studi (e Testi) italiani”, Bulzoni editore, n.5, 2000
(3) E. Vittorini “Conversazione in Sicilia”. Einaudi, 1966
(4) L. Catania “ Vittorini e l’impegno tradito”. La Repubblica 26/08/2006
(5) E. Papa “Vittorini in prigione nel ricordo di Salvatore Di Benedetto”. La Sicilia 23/01/2016
(6) F. Giannantoni “Vittorini al carcere dei Miogni”. http//www.rmfonline.it/?p=2876. 3/02/2012
(7) M. Duras “ Quaderni della guerra ed altri testi”. Feltrinelli, 2008