Titanic. Quando l’Emilio non volle naufragare

Venne ad aprirmi proprio lui e il mio sguardo si perse nella giacca a irregolari rombetti marroncini che mi indicarono la via del suo volto, dove incrociai due occhi vispi e due orecchie discretamente a sventola.
La montatura degli occhiali piuttosto pesante ,sopra un naso che si allargava generosamente alle narici.
Una espressione bonaria, con discreti guizzi di lenta ironia.
Mi trovavo davanti all’architetto Emilio Portaluppi, uno dei 705 superstiti dell’affondamento del Titanic.
Il più vecchio, a suo dire, tra gli ancora in vita.
A quasi sessanta anni dalla tragedia.
” Un caffè o una cedrata?”, mi chiese Emilio Ilario Giuseppe Portaluppi, nato ad Arcisate il 15 ottobre 1881.
“Un caffè, grazie”, risposi.
E lui mi stappò una cedrata.
Sul divano sfogliavamo uno scuro contenitore carico di ritagli di giornale.
“La Stampa” , del 21 febbraio 1967.
L’articolo era doppio, come una figurina delle collezioni Lampo.
Me lo donò.
E quello non l’ho perso.
“Il comune di Alassio conferirà all’architetto Portaluppi la cittadinanza onoraria, anche per premiarlo della sua predilezione per i viaggi in mare. Infatti, nonostante la tragica avventura vissuta, ha continuato per 55 anni ad attraversare l’oceano per i suoi frequenti viaggi tra l’Italia e L’America , sempre in piroscafo”.
Alassio era diventata ormai la sua città.
Non dovetti porgli domande.
Si rivelò un fiume in piena.
Parlava di quella notte quieta, quasi fascinosa , con sorprendente lucidità di dettagli.
Lui osservava ancora i comignoli del Titanic, un gabbiano lungo 296 metri e pesante 46.000 tonnellate.
Un mitologico animale che custodiva nel suo ventre tutti i sogni ( e gli incubi?) di 1500 viaggiatori.
E poi mischiava le cronologie, parlandomi di Milford e della Tonella e Sons Granite.
La sua trasformazione da scalpellino a scultore.
In quell’incontro mi affascinò enormemente il suo slang misto italo/dialettale/americano.
E Mister Baley diventava Mister Baloss.
Un accenno a un amico perso, il pasticcione del Barre dall’improvvido martello : ul barlasc del Barre.
What is going to happen? Santo cielo, un nuovo carico di italici aspiranti scalpellini.
Una pausa, un sorso di cedrata.
L’Emilio diventa mezzo poeta.
” O fanciulle state su di testa / che di ragazzi ce ne sono ancora/ ne è arrivata una barca piena/ per dieci centesimi la dozzina / il più bello che si trovava dentro/ era gobbo,strabico e senza denti.”
Ma poi, all’improvviso, i rintocchi del dramma.
What is going to happen?
Il dispettoso iceberg corre di buon passo verso la traiettoria dei mortali.
Il gigantesco orso bianco si sistema nel bel mezzo della rotta commerciale.
Non c’è un filo di nebbia e le note degli orchestrali sono giuggiole verso la volta stellata.
“Ergo dunca” l’impatto, la lama di ghiaccio apriscatole.
Gli ordini degli ufficiali, i disordini dei passeggeri.
La corsa alle scialuppe.
Troppo poche, ” Sunt mia chi a fa balà la scimbia”, troppo poche.
La cedrata è finita.
Assieme alla storia del mitico transatlantico.
Alle 2 e 20, in un ciclopico rigurgito, la siluette del Titanic si impenna in una vertiginosa verticale , poco prima di spaccarsi in due tronconi.
Un tuffo da una altezza di venti metri.
L’arcisatese naufrago si dibatte nell’acqua gelida e non sente più le gambe.
Si odono solo rumori indistinti e singulti e frastuoni ghiacciati e pianti abbozzati.
Un rimescolio di gente e di cose inghiottite dal ventre dell’oceano.
“La tragedia non fu una fatalità. Il Gigante voleva frantumare tutti i primati . Già, i primati…”.
Poi, finalmente, una coperta calda nel guscio di una imbarcazione.
E Lady Astor?
Si è fatto tardi e il Sciur Portaluppi mi invita garbatamente a levare le chiappe dal suo divano.
Ma prima di chiudere la porta di casa, aggiunge un’ultima annotazione.
” Deve sapere che ,a distanza di una vita, mi sovviene ancora, quasi ogni notte, la sagoma del sassofonista che seguitava a suonare . Segaligno, il volto cereo, sicuro di morire. Ma quante note vivissime, prima della prima nota morta”.
Non ci saremmo più visti.
Emilio Ilario Giuseppe Portaluppi se ne andò, ultranovantenne , il 18 giugno 1974.
E l’intervista con lui resta forse la mia più bella avventura da giornalista incompiuto.

Carlo Cavalli