Campioni di Ferrari

Il primo fu Tazio Nuvolari. Incontrato sulle piste da rivale, a metà degli anni 20. Piccolino, tutto nervi, elegantissimo, molti quattrini a disposizione per acquistare le auto e le moto migliori con le quali correre. Persona abituata a una vita agiata, alle comodità che poteva permettersi una dinastia di proprietari terrieri del mantovano, aereo privato compreso. Ma tutt’altro che accomodante o viziato il pilota che subentrava al ricco ragazzo di campagna: quando si metteva alla guida di una motocicletta o di una vettura, Nuvolari – e Ferrari che ne fu rivale lo sapeva bene – diventava un diavolo scatenato, capace di domare i cavalli (vapore) con una abilità unica che solamente un altro pilota pareva possedere, ma con meno costanza. Il suo nome era Achille Varzi, erede di industriali novaresi della tessitura, enorme talento non disgiunto da una vita di raffinatezze e agi, aereo privato pure lui, grandi sarti, grandi frequentazioni, grandi cadute di rendimento agonistico dovute a eccessi con donne fascinose e pericolose, che lo portarono sino alla droga, salvo poi risalire cancellando le macchie di gioventù.

Nuvolari e Varzi furono i primi. I primi di tanti campioni che Enzo Ferrari ingaggiò quando decise di far diventare la sua Scuderia, che gareggiava con vetture Alfa Romeo, un serbatoio di campioni con i quali proporsi al mondo quale scopritore di talenti e successivamente industriale. Fu Ferrari a scovare Nuvolari e Varzi, a comprenderne prima di altri la bravura, l’intelligenza, la diversità. In cambio, le vittorie delle Alfa Romeo con lo scudetto giallo con un cavallino che rampava verso l’alto, diedero a Enzo Ferrari la fama e la credibilità per compiere i primi passi di un percorso che l’avrebbe portato a diventare uno dei più grandi personaggi del secolo.

Ferrari e l’Alfa Romeo furono tutt’uno per un lungo pezzo di storia, tanto che nel ’38 la Casa milanese decise di promuovere quell’omone di Modena, intraprendente quanto ingegnoso, a capo del proprio settore competizioni, salvo poi licenziarlo – in quanto divenuto eccessivamente ingombrante – un anno dopo. E da lì Ferrari andò avanti da solo, cominciando a costruire le sue macchine con le quali, una volta cominciata l’avventura della Formula 1, il 14 luglio del 1951, riuscì a battere proprio l’Alfa, conquistando la prima vittoria assoluta. Lo fece grazie a Froilan Gonzalez, argentino corpulento e pilota muscolare, grande forza fisica e propensione al rischio. Dava tutto, quindi piaceva a Ferrari che voleva solo piloti che esaltassero le sue vetture senza arrogarsi troppi meriti. L’opposto di Juan Manuel Fangio, argentino pure lui, che con Enzo Ferrari ebbe invece un rapporto travagliato, in quanto eccessivamente calcolatore, guidatore cerebrale il cui motto era «vincere andando il più piano possibile». Ma questo non gli impediva di imporre alle sue gare un ritmo ossessionante, con una abilità fuori dal comune e una intelligenza che lo ha portato a sopravvivere a un’era – gli anni Cinquanta – in cui si moriva in continuazione, vuoi per la fragilità delle vetture, vuoi per circuiti in cui il concetto di sicurezza era del tutto aleatorio e di là da venire. Fangio conquistò con la Ferrari un mondiale nel 1956, ma il primo di tutti a portare al massimo titolo una monoposto di Maranello era stato Alberto Ascari, milanese benestante grazie anche ai quattrini accumulati dal padre Antonio, grande campione morto in corsa nel 1925 a Monthlery, in Francia. Ascari s’impose nel 1952 e 1953 con una facilità impressionante. Ferrari disse che era velocissimo quando partiva in testa, ipotesi parzialmente vera perché Alberto sapeva vincere anche scattando dal fondo. Molto versatile, aveva cominciato correndo in moto e poi aveva debuttato in auto alla Mille Miglia del 1940, con la Auto Avio acquistata da Ferrari. Il quale, anni dopo, dovette pagarlo profumatamente quando ne intuì le qualità, ma fu costretto a perderlo nel momento in cui la Lancia offrì ad Ascari una cifra iperbolica per averlo con sé. Persona affabile, incline alla frequentazione del bel mondo, vendeva  automobili in Corso Sempione a Milano ed era tanto bravo quanto superstizioso: «Ricordo una volta – raccontò l’amico Gigi Villoresi – in cui ci stavamo dirigendo in Francia per una corsa e un gatto nero ci attraversò la strada: Alberto inchiodò i freni e non si mosse sinché, mezz’ora dopo, non transitò un’altra vettura…». Geloso dei propri indumenti da corsa, legato ai propri colori di gara, Ascari morì durante un test a Monza in cui, avendo lasciato a casa il casco, si era fatto prestare quello di Castellotti. Un mistero ancora oggi il perché dell’incidente fatale, il 26 maggio 1955: due strisce nere sull’asfalto furono un indizio troppo aleatorio per spiegare come mai la sua macchina si fosse impennata e poi rovesciata in piena velocità.

Fu invece in un incidente stradale che perse la vita Mike Hawthorn, campione del mondo con la Ferrari nel 1957, ragazzone stravagante – correva con il cravattino – e ottimo intenditore di whiskey, che Enzo Ferrari volle per la sua aggressività agonistica troppo spesso trasferita sulle strade aperte al traffico. John Surtees, inglese pure lui, fu un pilota stimatissimo da Ferrari, che adorava coloro che avevano avuto un passato motociclistico. E lo portò a conquistare anche il titolo della F.1 nel 1964, dopo che Big John ne aveva ottenuti altri 7 con la moto: un caso mai più ripetuto. Surtees parlava bene l’italiano e questo lo avvicinò a Ferrari, con il quale si cementò un rapporto stretto, quasi affettuoso. Ma tutto si ruppe all’improvviso, quando Ferrari si fece convincere da qualcuno che Surtees facesse dello spionaggio industriale a favore della britannica Lola, che costruiva vetture Sport facendo concorrenza a Maranello.  Anni dopo, il costruttore scrisse una frase lapidaria: «Con Surtees so quello che ho perso, ma non so quello che avrei perso se l’avessi tenuto».

Ci vollero undici anni, dopo il divorzio con Big John, prima che Ferrari conquistasse un altro titolo mondiale. A regalarglielo fu un pilota austriaco abile, ben istruito, proveniente da una famiglia di banchieri viennesi: Niki Lauda. Fu Clay Regazzoni, suo compagno di colori alla Brm, a proporlo a Enzo Ferrari. Grande pilota, personalità da vendere, furbizia agonistica simile a quella di Fangio,  Lauda rimase vittima di uno spaventoso incidente sul circuito del Nuerburgring il 1° agosto 1976, dal quale uscì sfigurato. «Ma erano solo ferite estetiche, dentro ero integro e Ferrari non lo capì, pensava che la mia voglia di tornare a correre a Monza, un mese dopo, fosse solo una reazione isterica. E proprio per questo aveva ingaggiato al mio posto un altro pilota, Carlos Reutemann. Così ci ritrovammo a gareggiare in 3, con la Ferrari, il 12 settembre nel GP d’Italia. E io mi piazzai quarto, davanti agli altri due…».

Il racconto di Niki, fatto oggi, affascina. Però ancora adesso considera una scorrettezza quella di Ferrari nei suoi confronti. E così, vinto un altro mondiale per il Cavallino nel 1977, dopo l’iride del ’75, fece le valigie e passò alla Brabham di Ecclestone. Il terzo titolo arrivò nel 1984 alla guida di una McLaren, con cui aveva ripreso a gareggiare dopo una sosta disintossicante e rigenerante. Con Ferrari i rapporti tornarono normali più tardi. Il tempo che fece da medicina e placò gli animi di entrambi. Luogo dell’incontro pacificatore fu il circuito di Imola dove si tenevano dei test. I due si abbracciarono e Ferrari sentenziò: «Se fossi rimasto con me avresti vinto più titoli di Fangio». Lauda scosse la testa: «Sì commendatore, sono sicuro che le cose sarebbero andate proprio nel mondo che dice lei». E non lo disse certo per compiacere.

Jody Scheckter a Maranello fu una meteora ma è rimasto l’ultimo dei piloti ad aver conquistato un mondiale (1979) con Enzo Ferrari ancora in vita. Tra i due ci fu simpatia ma poco dialogo. Anche perché Ferrari era innamorato del compagno di squadra di Scheckter, ossia Gilles Villeneuve, nel quale rivedeva Tazio Nuvolari. Simili nella propensione totale al rischio, simili nel fisico, nel modo di ragionare, nell’approccio diretto con le persone, persino nello stile di guida. Villeneuve distruggeva le macchine ma Ferrari lo perdonava invece di redarguirlo. Un rapporto bellissimo, poi la tragedia di Zolder del 1982 e le lacrime di Enzo, il cui dolore fu pari a quello della perdita di un figlio. Era proprio lui che, anni prima, aveva detto che con i piloti preferiva tenere le distanze, onde evitare di soffrirne troppo in caso di scomparsa. Con Villeneuve invece si lasciò andare, cedette ai sentimenti, all’entusiasmo per un corridore che faceva cose incredibili, per un ragazzo semplice, puro dentro la religione del rischio, persino ingenuo in alcune situazioni.

Dopo la scomparsa di Enzo Ferrari, altri campioni sono approdati a Maranello:  da Mansell, a Prost, a Schumacher, ad Alonso, a Vettel. Alcuni hanno portato vittorie, altri titoli mondiali. Nessuno, però, ha più potuto assaporare quelle atmosfere incantate del passato, quando il vocione del Grande Vecchio rimbombava tra le pareti bianche o gialline dei corridoi incutendo timore e rispetto, ma ammantando anche di una gloria diversa coloro che aveva scelto di far correre con le sue macchine.

Pino Allievi