Brevi considerazioni su Deng Xiaoping: l’uomo che ha sfamato un miliardo di persone

I recenti eventi di politica internazionale, che vedono protagonisti la Corea del Nord e il suo bizzarro – nonché inquietante – dittatore, che un giorno sì e l’altro pure minaccia di far saltar per aria mezzo mondo, stanno mettendo in evidenza una volta di più come, per risolvere le crisi dell’Asia-Pacifico, il ruolo che la Cina deciderà di assumere sarà sempre più d’importanza vitale.

L’amministrazione Trump, infatti, sta già verificando con mano quanto sia irrealistico pensare di risolver la crisi in corso con uno degli ultimi “Stati-canaglia” applicando categorie e metodi di stampo unicamente occidentale.

Per quanto inviso possa essere all’establishment americano, è un dato di fatto che la Cina abbia ormai assunto in modo stabile lo status di superpotenza, e la sua confinanza, non solo geografica, con la Corea del Nord, è l’unica vera carta che il Presidente degli Stati Uniti può – e deve – utilizzare per indurre Kim Jong-Un a più miti consigli.

Oggigiorno, sia a livello mediatico che di studi specialistici più approfonditi, si dà quasi per scontato il fatto che la Repubblica Popolare Cinese faccia parte a pieno titolo delle nazioni più potenti del pianeta.

Eppure, ancora vent’anni fa, la “terra di mezzo” era un Paese arretrato, poverissimo, facente parte di quel club di Stati che Mao Zedong definì del “terzo mondo”.

Se oggi la Cina può permettersi di detenere un terzo del debito pubblico americano, di costruire dal niente intere città in meno di un lustro, di sfidare apertamente gli Usa per la supremazia nell’Oceano Pacifico e di osare addirittura di ricostituire una nuova “Via della Seta”, che collegherebbe via terra Pechino e l’Europa, deve tutto questo a un nome e a un cognome: Deng Xiaoping.

Nonostante gli eventi siano ancora troppo recenti e se è vero – come è vero – che la Storia la si scrive sempre dopo diversi decenni, non è un azzardo sostenere fin d’ora che Deng Xiaoping sia stato, per la portata degli obiettivi perseguiti e raggiunti, uno degli uomini più importanti nelle umane vicende di tutti i tempi.

Come molti degli uomini che hanno maggiormente inciso, nel bene e nel male, sulla storia del Ventesimo Secolo, Deng è un sopravvissuto. Colpito per ben tre volte dalle purghe maoiste, è sempre riuscito a sopravvivervi e a scalare le gerarchie del Partito Comunista Cinese, diventandone leader di fatto dal 1978 al 1992.

Sconfessando quarant’anni di disastrose politiche interne messe in atto dal predecessore Mao, Deng si fece promotore di riforme economiche ad ampio respiro che hanno portato la Cina, in poco più di tre decadi, a una crescita e a una modernizzazione prodigiose.

Se oggi centinaia di milioni di cinesi hanno visto incrementare in modo così drastico il proprio tenore di vita, lo devono in gran parte a Deng Xiaoping e alle sue riforme economiche.

Laddove egli fu un innovatore, quasi un “liberista” in ambito economico, certamente non lo fu in quello politico. L’orientalista statunitense Ezra Vogel, nel suo fondamentale volume “Deng Xiaoping and the Transformation of China”, definisce infatti Deng un “autoritario visionario” che, con le sue scelte, risollevò la nazione dalle ferite auto-inflittesi durante gli anni di Mao Zedong.

Deng era consapevole che la sua eredità politica sarebbe stata in parte offuscata dal proprio diretto coinvolgimento nella repressione degli studenti di Piazza Tiananmen del 1989. Tuttavia, nella sua “visione” politica, la Cina necessitava di un Partito Comunista forte, in grado sia di guidarla verso la modernizzazione, che di mantenerla unita. Per raggiungere tali obiettivi, egli riteneva imperativo che il governo di Pechino affermasse la propria autorità con ogni mezzo necessario, anche a costo – come poi avvenne – di entrare in crisi diplomatica con il mondo occidentale.

Questo perché, incurante delle critiche provenienti dai media americani ed europei, Deng aveva ben imparato la lezione proveniente dall’Unione Sovietica con il crollo del muro di Berlino: per non disgregarsi come avvenuto all’Europa Orientale, il Partito non doveva allentare la morsa in materia di diritti civili e di libertà individuali e, soprattutto, non doveva cedere alle richieste dei manifestanti di piazza. Farlo, avrebbe significato aprire una breccia nella quale le potenze occidentali non avrebbero esitato a infilarsi.

La brutale repressione di Piazza Tiananmen, per quanto intollerabile agli occhi delle democrazie liberali, mandò l’inequivocabile messaggio che sfidare apertamente il Partito Comunista cinese si sarebbe rivelato un gioco molto pericoloso e senza reali possibilità di riuscita.

Come tutti i sopravvissuti, Deng Xiaoping sapeva essere molto scaltro e abile nel fiutare i pericoli, anche – e soprattutto – quelli provenienti dagli ambienti a lui più vicini. Quando si parla o si scrive di Piazza Tiananmen, infatti, passa quasi sempre sotto traccia il particolare che le proteste esplosero come reazione popolare spontanea in seguito alla morte improvvisa di Hu Yaobang, che lo stesso Deng aveva elevato al rango di Segretario Generale del Partito e che, successivamente, fece cadere in disgrazia in quanto rivelatosi troppo “morbido” nei confronti delle prime, timide manifestazioni studentesche del 1986.

Deng, peraltro, era furente con i dimostranti perché questi ultimi avevano sfacciatamente e senza preavviso occupato Piazza Tiananmen durante la visita di Stato di Gorbachev, rovinando così le già pianificate celebrazioni per la fine delle ostilità sino-sovietiche.

Zhao Zhiyang, subentrato a Hu Yaobang nel ruolo di Segretario Generale del Partito Comunista cinese, si dimise per non vedersi costretto a indire la legge marziale, optando di schierarsi dal lato della storia che egli riteneva più giusto, anche al costo di entrare in rotta di collisione con Deng Xiaoping. Il coraggio dimostrato costò molto caro a Zhao Zhiyang: arrestato per cospirazione contro lo Stato, languì agli arresti domiciliari fino alla sua morte nel 2005.

Deng Xiaoping

Conseguenza primaria della repressione di Piazza Tiananmen fu l’affermarsi di un’istruzione di stampo nazionalista in tutto il Paese, intesa a legittimare il Partito e l’unità popolare avverso le pulsioni indipendentiste provenienti dalle regioni più periferiche dell’impero “di mezzo”.

Le sanzioni economico-diplomatiche occidentali, messe in atto per punire i leader cinesi come conseguenza della repressione di Piazza Tiananmen, alimentarono un nazionalismo crescente nella popolazione, sempre memore delle umiliazioni che le potenze coloniali occidentali avevano inflitto al Paese nel corso del Diciannovesimo Secolo.

L’esclusione dalla World Trade Organization, la mancata assegnazione delle Olimpiadi del 2000, le critiche provenienti da ogni dove circa le violazioni dei diritti umani nei confronti dei tibetani e della minoranza musulmana uigura, il malcelato sostengo a Taiwan e il rifiuto di ascoltare le ragioni cinesi in merito alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale e Orientale erano considerate tutte prove che dimostravano quanto l’Occidente fosse mosso da pregiudizi nei confronti della Cina e quanto determinato esso fosse a rallentarne il più possibile l’ascesa al rango di superpotenza.

Nonostante i rapporti spesso difficili con il Giappone, Deng Xiaoping utilizzò tutta la sua influenza e tutta la sua autorità per firmare un trattato di pace con il ricco, ancorché storicamente ostile, Paese vicino.

Nonostante le truppe dell’Impero del Sol Levante si fossero macchiate dei peggiori crimini di guerra durante l’occupazione della Cina, Deng, animato dallo spirito pragmatico che ha sempre contraddistinto il suo popolo, vedeva nel Giappone un modello da imitare (quanto meno in campo economico) e nel Trattato di Pace e Amicizia fra i due Paesi, siglato nel 1978, uno strumento per aprire alla Cina l’importazione di know-how industriale e di investimenti giapponesi.

Deng, pur consapevole delle profonde differenze e diffidenze che, storicamente, separano il popolo cinese da quello giapponese, riteneva il modello produttivo nipponico lo stato dell’arte nel mondo, e amava ripetere ai suoi consiglieri che se la Cina, ricca di risorse naturali, avesse appreso dai rivali di sempre la capacità industriale, sarebbe divenuta la prima potenza economica del pianeta nel giro di pochi decenni. I fatti gli hanno dato ragione.

Storica, peraltro, fu la visita che lo stesso Deng Xiaoping effettuò in Giappone nell’ottobre 1978, con l’obiettivo dichiarato – e centrato – di ottenere investimenti e trasferimenti di tecnologia che avrebbero aiutato la Cina ad avviare il processo di modernizzazione delle proprie infrastrutture. A distanza di quarant’anni, infatti, non è azzardato sostenere che nessun altro Paese abbia rivestito un ruolo più importante del Giappone nell’aiutare la Cina a ricostruire le sue industrie e le sue infrastrutture, grazie a investimenti stimati nell’ordine di 25 miliardi di dollari.

Tutto questo, al netto delle aspre dispute diplomatiche e territoriali che, periodicamente, riaffiorano fra i due giganti dell’Asia.

Niente male, per un uomo che amava definirsi non più intelligente di un “piccolo contadino” e che, per tutta la vita, ha evitato in patria riconoscimenti accademici che pur avrebbe potuto facilmente ottenere.

Che opinione avere, allora, di Deng Xiaoping e del suo operato? La risposta, come sempre, la daranno gli storici negli anni a venire, ma è indubbio che Deng sia stato tanto un abile negoziatore in politica estera, quanto un talentuoso amministratore in politica interna.

Laddove Mao Zedong, infatti, ha avuto l’enorme merito di riportare la Cina al centro del mondo e di farle assumere nuovamente lo status di grande potenza, ma al prezzo di una gestione interna disastrosa e di una delle dittature più brutali di sempre, Deng Xiaoping, al contrario, è riuscito a mantenere il Paese al centro della scena internazionale investendo però, nel contempo, su quelle riforme economiche ormai non più procrastinabili.

A tal proposito, non appaiono esagerate le parole di Ezra Vogel, secondo il quale il rilancio dell’agonizzante Cina messo in atto da Deng Xiaoping ha rappresentato il più grande boom economico della storia mondiale.

Per fare ciò, optando per una via totalmente contraria a quella seguita da Mao, si attirò le antipatie di una rilevante fazione del Partito, ma ebbe ragione lui, liberando la Cina dalla zavorra di arretratezza ereditata dai disastri del “Grande balzo in avanti” e della “Rivoluzione culturale” tanto cari al Grande Timoniere.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1997, la Cina ha avuto tanti amministratori e politici capaci – uno su tutti, Jiang Zemin – ma nessuno di questi ha coniugato in un solo uomo la combinazione di autorevolezza, ampiezza di vedute, esperienza, senso strategico, relazioni personali (è cosa nota, ad esempio, la sua amicizia con Henry Kissinger) e acume politico riscontrabili in Deng Xiaoping. Doti che questo piccolo, grande uomo ha utilizzato fino all’ultimo dei suoi giorni per portare a termine il più grande cambiamento della storia cinese dai tempi dell’unificazione “sotto un unico cielo” per mano di Qin Shi Huangdi nel 221 a.C.

Oggi la Cina si trova ad affrontare sfide analoghe a quelle fronteggiate da Deng nel 1989, su tutte le istanze sempre più pressanti della società civile per una maggiore libertà personale, di pensiero e di opinione; una corruzione che appare endemica alla struttura del Partito Comunista; nepotismo nell’attribuzione di incarichi pubblici e privati; legittimazione del Partito agli occhi della popolazione e spinte indipendentiste sempre più forti nelle regioni periferiche della nazione (passando dal Tibet allo Xinjiang fino a Hong Kong).

A queste già enormi sfide, se ne aggiungono altre che Deng Xiaoping non dovette affrontare, quali un inquinamento ambientale e atmosferico non più a lungo sostenibile, il timore dello scoppio di una “bolla” speculativo-finanziaria, nonché la necessità di garantire misure di assistenza sociale e sanitaria a una popolazione che – come tutte quelle dei Paesi più ricchi del mondo – invecchia rapidamente.

Il modo in cui l’attuale Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping riuscirà ad affrontare le sopradette, immani sfide che lo attendono, determinerà il giudizio che la Storia gli destinerà a futura memoria.

Edoardo Quriconi