Gli estimatori di Procuste

Ma come poté venire in mente ad un gruppo di buontemponi (se, ricorrendo ad una litote, vogliamo così definirli) di chiamare il loro sodalizio con il nome di Procuste? “Libera Unione Estimatori di Procuste, così vollero nominarlo. Incuranti a tutta prima dell’obiezione che la parola “libero” non andava molto d’accordo con il nome del loro ispiratore, anzi che il loro accoppiamento costituiva un vero e proprio ossimoro, alla fine si rassegnarono a sacrificare solo l’aggettivo libero, ostinandosi a difendere non solo il resto di quella denominazione, ma addirittura il personaggio mitologico famoso per le torture che infliggeva agli imprudenti passanti che attraversavano la sua strada.

“Ma di quali torture andate cianciando, insistevano, Procuste è il personaggio più diffamato della mitologia, è stato invece un benefattore dell’umanità, anzi dell’Umanità con la U majuscola. Quella sua abitudine di portare tutti alla stessa misura, allungando – è vero a volte con metodi un po’ sbrigativi – le persone verticalmente svantaggiate, (come sarebbero state chiamate alcuni millenni dopo) ed accorciando quelle troppo avvantaggiate in altezza, che per lui diventava lunghezza visto che esse venivano distese nel suo famoso letto, quella sua abitudine, dicevano i suoi nuovissimi partigiani, che altro era se non il riflesso e la prova del uno smisurato amore per l’uguaglianza?”.

Ed era proprio l’uguaglianza l’ideale a cui si ispiravano i sodali. Prima furono sei, poi otto, poi dodici ed infine, dopo altre precipitose ammissioni, in parte forzate, ventotto, ma neanche questo numero di membri era ritenuto sufficiente, si cercava di reclutare sempre nuovi proseliti. Lo scopo era di arruolare tutti i podlesiani nelle loro schiere sia quelli che lo desideravano, sia quelli piuttosto restii, lusingati con promesse di benefici mirabolanti che avrebbero assicurato loro una incommensurabile felicità. Quel reclutamento si ispirava al vecchio motto (non si sa da chi inventato) “Il numero è potenza”.

L’uguaglianza a cui aspiravano i sodali non era soltanto quella della statura, o lunghezza corporale che fosse, degli esseri umani. Essa riguardava tutti i prodotti della natura: i vegetali anzitutto e poi gli altri esseri appartenenti al regno animale. Perché mai, si sosteneva, dovrebbero esistere banane curve come scimitarre e banane diritte come spade, piselli grossi e piselli poco sviluppati, cavoli grandi e cavoli di dimensioni ridotte? Perché robusti cavalli e gracili puledri, elefanti ed elefantini, mosche, moschiti e mosconi, polli e pollastri? Bisognava, dicevano, riportare tutto e tutti ad una sola misura. Non è molto più bello un mondo uniforme, ben ordinato, nel quale nessuno debba invidiare nessuno? Solo così si eviterebbero gelosie, discordie (benché non si fosse mai saputo che una mosca avesse invidiato un moscone o un pollastro un pollo), ed in definitiva le guerre.

Nelle regole dell’UEP (era questa la sigla, in cui talvolta per brevità si ometteva l’ultima lettera) l’uguaglianza e l’uniformità dovevano anche riguardare altre qualità: i soci dovevano essere tutti intelligenti allo stesso modo, tutti tenuti al medesimo comportamento, tutti ugualmente agili e veloci e così via. Sì, ma se la natura, leopardianamente matrigna, aveva creato delle differenze? Semplice, si cambiava la natura, come aveva insegnato con l’esempio il Maestro e, poiché gli stupidi non potevano diventare intelligenti, questi dovevano allinearsi alla stupidità generale. E chi doveva e poteva controllare che ciò avvenisse? Ne nacque l’esigenza di una burocrazia, per carità senza poteri politici, senza una vera autorità che avrebbe creato ancora una volta – Dio ce ne scampi! – una distinzione tra controllori e controllati, e dunque una nuova disuguaglianza …

I capi della burocrazia a dire il vero obbedivano segretamente a loro volta a quei soci che, magari non più intelligenti, godevano dei vantaggi della ricchezza, con cui potevano fare il bello e più spesso il cattivo tempo. Di ciò a lungo andare si resero conto gli altri soci, troppo deboli per ribellarsi subito alla nuova ingiustizia non troppo dissimile da quelle di cui si erano liberati prima di aderire all’UEP. Uno dei sodali tuttavia riuscì a sfuggire alla morsa. Vero è che sin dall’inizio aveva ottenuto un trattamento particolare, in virtù della sua situazione di isolamento, ma man mano andò allargando la sua autonomia facendosi beffe dei capi della famosa burocrazia e dei suoi occulti ispiratori. Per non farselo sfuggire del tutto, i burocrati facevano buon viso a cattiva sorte ed accettavano da lui sempre nuove violazioni alle regole ed al patto di pretesa eguaglianza. Fu così che cominciò il declino della famosa UEP, opportunamente mascherato da trasformazione, evoluzione, sviluppo e da tutte le altre diavolerie di cui gli umani ammantano i fatti che si rivelano sbagliati, ma che non si vuol cambiare formalmente per non ammettere l’errore o gli errori commessi e anche perché le burocrazie una volta create, come i vecchi generali, non muojono mai. Esse semmai si trasformano, seguendo anche loro la legge del Lavoisier, o almeno la sua ultima parte: nulla si distrugge, tutto si trasforma.

Il processo di trasformazione fu lento ma inesorabile: una volta concesse delle eccezioni a favore del più forte (ecco una disuguaglianza che nessuno aveva potuto scalfire) altri membri del sodalizio, prima timidamente e poi sempre più spudoratamente, chiesero ed imposero che anche a loro fosse permesso di fare degli strappi, sicché in breve ognuno ebbe la sua o le sue eccezioni. Goodbye, regole assolute, valide per tutti, Addio uguaglianze impossibili, Au revoir obblighi stringenti che non stringevano più che un pugno di mosche, Aufwiedersehen burattinajo o burattinaja occulta ma non troppo, a viszontatasra da parte dei costruttori di muri….(i podlesiani erano tutti poliglotti).

I famosi dirigenti ogni volta che dovevano accettare o subire uno strappo, ripetevano che in realtà si trattava di una loro vittoria, definita iperbolicamente anche un “fatto epocale”. Essi furono costretti così ad ingojare un numero spropositato di rospi, neanche tutti – a loro scorno – delle stesse dimensioni.

Sul portone della società che si fregiava all’inizio del simbolo dell’uguaglianza costituito da un letto di ferro in memoria dell’ispiratore Procuste, fu inalberata una iscrizione simile a quella dell’abbazia di Thélème: “Fais ce que voudràs”, fai quel che ti pare (ma la spirito era diverso da quello giocoso di Rabelais).

Fu così che venne salvata la famosa Unione degli Estimatori di Procuste. Non è stata confermata la notizia secondo cui in qualche zona recondita dell’Olimpo o dell’Ade sarebbe stato visto il povero Procuste piangere disperato, appoggiato alla spalla dell’ultimo capo della burocrazia dell’unione perennemente riformata. Appoggio pericoloso e malfermo perchè quel capo era perennemente sbronzo.

Alberto Indelicato