Tre parole, tre. Sigaro, cioccolato e champagne

Tre parole tre.

Sigaro, cioccolato e champagne.

A consegnarmele, perché ne faccia buon uso nella rivista Dissensi e discordanze, è Mauro della Porta Raffo, che del periodico da lui ideato è il dominus.

Le infila in una mail e a me arrivano come fossero appena uscite dalla lampada di Aladino, chiavi magiche per dare consistenza a immagini e ricordi.

Posso utilizzarne una sola, o anche più d’una, o tutt’e tre insieme, suggerisce il mittente.

Tocca a me scegliere.

Ci medito la notte, e la risposta arriva inattesa.

Mi sembra quasi un dovere impiegarle tutte: perché tutte mi conducono e riconducono attraverso un percorso già scritto – inanellate l’una dopo l’altra, come perle di una stessa collana – a Piero Chiara.

Sarà che Mauro è suo dichiarato e riconosciuto allievo, e se ti rapporti con lui ti viene in mente subito l’anche l’autore de “Il piatto piange”, suo formidabile compagno e rivale, di carte e di biliardo.

Sarà che le mie radici portano, per via materna, a Luino e alle sue vicende di piccola patria dove “la vita cova sotto la cenere”, sarà che, spesso, le combinazioni apparentemente casuali hanno un loro necessario e imperscrutabile percorso.

E, delle tre, questa è l’ipotesi che mi sembra più verosimile.

Parto dalla prima parola: sigaro.

Come avessi davvero tra le mani la lampada di Aladino, ecco sprigionarsi il primo ricordo, visivo e, soprattutto, olfattivo: e lo vado a cercare nel racconto di Chiara “Ti sento, Giuditta”.

Chi l’ha presente per averlo letto, sa della magia, evocata da Chiara, che dai sigari – i toscanelli di Brissago – porta all’opposta riva di Luino: sa di quel filo odoroso, di tabacco dolciastro, attorno al quale l’autore ha dipanato il racconto.

E’ tra i suoi più belli, di fatto uno dei preferiti, come lo scrittore usava dichiarare.

Fu pubblicato per la prima volta in piccolo formato, era il 1965, dall’editore Vanni Scheiwiller, poi inserito da Mondadori, nel 1969, nella raccolta L’uovo al cianuro.

Nel 1981 Chiara ne ricavò di nuovo un libretto di dimensioni minimaliste, realizzato in un’edizione a tiratura limitata dalla gioielleria varesina Manfredi: una raffinata plaquette incastonata – come una gemma – in una cornice di velluto rosso che s’apre a libro: accanto, su di un biglietto di carta leggera azzurrina, la dedica autografa dell’autore e il numero di tiratura.

Quando cerco il racconto, lo vado a leggere proprio lì: apro la vetrinetta di una libreria di casa dove sono custoditi alcuni volumi preziosi, tra cui una Aminta del Tasso del 1700, una copia dei Promessi Sposi del 1858, e diversi libri di famiglia con gli ex libris degli antichi proprietari.

L’odore del legno e della carta inebria e svapora con vigore.

Ma, appena sfoglio il libretto dov’è il racconto della Giuditta – affettuoso omaggio di Chiara a mio marito, per ringraziarlo dell’ interesse personale e professionale alla sua opera narrativa – mi pare di avvertire anche un lontano profumo di sigaro.

Quel sentore di tabacco rievocato da Chiara, che corre sul Lago Maggiore, è particolarmente caro anche a me: significa qualcosa di speciale e personale.

Faccio una premessa.

Non ho conosciuto nessuno dei miei due nonni, e per questo motivo li ho sempre desiderati.

Li inseguivo nella mia nostalgia di bambina, quando vedevo i compagni di classe allontanarsi da scuola per mano ai loro nonni, o quando raccontavano le loro giornate trascorse insieme.

Ma mi sono rimasti, di nonno Pietro e nonno Tommaso, i racconti dei figli – i miei genitori – e i ritratti, ritrovati dopo la morte della mamma nell’album di famiglia .

So che fumavano entrambi il sigaro, allora si usava molto più di oggi.

Il nonno materno, mi pare di aver capito, fumava quotidianamente la pipa, spesso anche il sigaro.

Proprio una fotografia di lui, col sigaro tra le dita, mi riporta a Luino: il nonno é ritratto, in una foto di gruppo, con ‘la squadra’ dei dipendenti della dogana.

Ne era in quegli anni il severo – e proprio per questo stimatissimo -direttore.

Non ho avuta conferma, ma credo di poter dire che, tra loro, sia riconoscibile anche il padre di Piero Chiara, che allora era a sua volta fedele dipendente.

So che alla dogana era inoltre presente, in veste di alto funzionario, il padre del poeta Vittorio Sereni: sua madre e mia nonna si incontravano coi figli ai giardinetti.

Quell’ aroma di fumo, che non ho potuto mai respirare, e quelle mani che ne odoravano, ma non ho potuto mai stringere, sono dunque per me motivo di nostalgia.

Nostalgia grande: perché la mamma parlava di suo padre come fosse il migliore dei genitori.

E perché la sorte ha voluto che le nostre esistenze non s’incontrassero mai, per lo scarto di neppure tre anni, essendo io nata nel primo giorno d’estate del 1950, lui uscito dalla vita, stroncato da un infarto, in un giorno di febbraio freddo e nevoso del ‘48.

Ucciso, si potrebbe aggiungere, dalla morte di un figlio di soli ventitré anni, caduto nel ’43 combattendo nel Montenegro, sul monte Ursig.

Enrico, detto Chico, il piccolo dei nove figli di Tommaso e Beatrice, avrebbe potuto rimanersene a casa, i genitori erano ormai anziani, due fratelli erano già sotto le armi.

Ma, per non sentirsi privilegiato e diverso da loro, decise che doveva partire.

Non nascondo che ho cercato spesso, ma invano, anche tra i racconti di Chiara, la presenza di quel nonno che non ho avuto.

Trentenne di buone speranze, era arrivato dal ravennate con un diploma di ragioniere, guadagnato grazie a borse di studio che gli avevano consentito di sopperire alle scarse risorse del patrimonio di famiglia – dilapidato da un padre poco pratico di affari – e di iniziare una promettente carriera di dipendente dello stato.

lo l’ho spesso immaginato camminare all’ombra dei platani – respirando l’odore del vento, che a Luino, ha scritto Chiara, “sa di acqua e di luce” – o assecondare i morbidi contorni del lago attorno al quale si era innamorato della nonna, più giovane di lui di una decina d’anni.

L’aveva incontrata perché lei, svizzera con radici importanti ben piantate nel lago, nata a Locarno, con parentele ad Ascona e Lugano, studiava in collegio proprio a Luino.

Il nonno l’aveva subito notata, e aveva deciso che sarebbe diventata sua moglie.

Ci riuscì, misero casa a Creva, e insieme ebbero nove figli.

A metà degli anni Venti trasferì la famiglia a Varese perché i figli più piccoli potessero frequentare le superiori senza doversi allontanare da casa, com’era invece stato necessario per i primi.

In conseguenza di quella scelta si sobbarcò, per diversi anni, il tragitto quotidiano sul tram che lo portava da Varese a Luino, e viceversa.

Finché non venne, anche per lui, l’età della pensione.

Dicevo della sua intransigenza: e questa qualità mi ha fatto pensare alla seconda parola – cioccolato – da infilare nella collana dei ricordi.

Fu appunto una tavoletta di cioccolato la causa di una solenne lavata di capo fatta dal nonno a un suo dipendente.

La nonna, reduce da un viaggio a Locarno, in battello, ne aveva portata, mi pare, una più del dovuto.

Il dipendente aveva detto gentile che non importava, e lei riferì al marito quella che le era sembrata solo una premurosa cortesia.

L’indomani andò col malcapitato su tutte le furie: “si ricordasse che la moglie del direttore non era diversa dagli altri”.

E la tavoletta di cioccolato incriminata fu riportata in dogana.

Esagerazioni?

Non fu l’unico caso entrato nella storia di famiglia: si raccontava che riaccompagnò personalmente un figlio, per restituire un limone caduto in serra dall’albero di un amico, e dal bambino incautamente raccolto e infilato nella tasca dei pantaloni, senza averne chiesto il permesso.

Segno di un’ educazione che non transigeva: mia madre ricordava di avere ricevuto da lui l’unico schiaffo della sua vita.

Fuggita dall’asilo di Creva, perché disgustata dal ripescaggio dello zoccolo di una compagna, caduto nel gabinetto, aveva raccontato a casa di aver avuto l’autorizzazione dalla maestra.

Non ci fu verso di rimandare la bambina nei giorni seguenti – né mai più – all’asilo.

Ma so, per certo, che la piccola Maria aborrì sempre le bugie.

Mia madre, nonostante lo schiaffo del padre, lo ricorderà ai suoi figli come un uomo buono e generoso.

E lui ebbe sempre con lei, che aveva il suo stesso taglio di occhi – obliquo, un po’ orientale – e la stessa limpidezza d’animo, una meravigliosa intesa.

Sono all’ultima parola, ultima perla da infilare nella collana dei ricordi: champagne.

A Locarno, tanti anni fa, seduti attorno a un tavolo del Grand Hotel di Muralto.

Sono contenta di esserci perché la nonna materna era nata proprio in questa località, dunque sento di avere una buona ragione per godermi la bella cornice, anche paesaggistica, che mi circonda e riporta alle mie radici.

L’occasione è quella di un premio letterario, il Premio Lago Maggiore: il discorso scivola su Piero Chiara.

Seduto alla mia sinistra, un giornalista milanese alquanto sordo, che mi risulta poco simpatico forse perché mi fa anche gran soggezione, cita con malizia un episodio.

Che, secondo lui, dimostrerebbe l’ eccessiva parsimonia dello scrittore: si sarebbe presentato a cena, in un albergo di lusso – lui testimone – con una bottiglia di champagne portata da casa.

Data la circostanza pubblica, il pettegolezzo mi infastidisce più che mai, tanto da essermi ben presente a distanza di tempo.

Oggi penso quanto difficile sia essere benvoluti se si ha un nome importante da portarsi appresso.

Anni dopo quell’infelice chiacchierata io avrei invece potuto apprezzare di Chiara, che nel frattempo mio marito aveva conosciuto per motivi di lavoro, la generosità e gentilezza.

Quando lo scrittore telefonava, per cercarlo a casa, si presentava con umiltà, persino con imbarazzo.

Sono Chiara” s’annunciava semplicemente, e quasi imbarazzava anche me quel cognome breve, che suonava come un nome di donna, subito seguito dal silenzio.

Omaggiò Massimo, oltre che col libretto del famoso racconto dedicato a Giuditta, anche con una raccolta di opere di artisti, da lui curata per una banca Svizzera.

Gli era riconoscente per l’attenzione che mio marito riservava ai suoi libri, avendoli recensiti per primo sul giornale locale, dopo anni di indifferenza di tanti varesini, anche addetti ai lavori.

Incontrandoci un giorno d’inizio estate in Varese – era in procinto di partire per la Liguria con Mimma – sentendo che ci recavamo anche noi sullo stesso mare ci invitò ad andarlo a trovare.

Invito che non osammo però onorare, per discrezione.

Mi sono fatta una personale idea: che quella bottiglia citata dal collega fosse stata portata, più che per evitare un esborso aggiuntivo al conto del ristorante, per predilezione di buongustaio.

Chi lo conosceva bene era al corrente di questa sua raffinata attenzione per il bello e il buono: Chiara collezionava libri rari, quadri d’autore, come quelli di De Chirico e del Piccio, sicuramente collezionava anche bottiglie del miglior vino.

Di certo Mauro, dotato di una prodigiosa memoria, ne potrebbe ricordare ancora l’etichetta.

Faccio un’ultima digressione, torno alla parola cioccolato.

E questa volta ci troviamo proprio nella casa di Chiara, è il ’91.

Lui non c’è più, se n’è andato nel 1986, l’ultima sera dell’anno, proprio quando l’intera umanità leva in alto i lieti calici dello champagne.

Da tempo ha dunque lasciato la sua Mimma.

Io l’ ho intervistata tempo prima, per un inserto culturale locale.

Nel dialogo dell’intervista Mimma mi aveva consegnato una bellissima frase: ” Lui mi ha insegnato la vita”.

Sempre disponibile, soprattutto quando si parla di suo marito, a spalancare le porte della curata e amatissima dimora di via Metastasio, ci accoglie da perfetta padrona di casa.

Nell’aria aleggia l’aroma fresco del suo profumo alla rosa.

Su di un tavolino ha posato per noi un recipiente con dei cioccolatini al latte, ripieni di crema, specialità di una ditta locale.

Invita Massimo a prenderne almeno uno, e lui s’arrende: giro lo sguardo e una colata di ‘dolce scioglievolezza’ s’allarga, poi scivola come lava lungo la cravatta azzurrina, minacciando la poltroncina di velluto rosa su cui è seduto.

Mimma, senza scomporsi, salva la situazione con eleganza: offrendo all’incauto ospite, e al sacrificio, un tovagliolino ricamato, di candido lino.

 

Ho rivisto tempo fa le poltroncine rosa di casa Chiara a Villa Mirabello, dove sono conservati, per volere degli eredi, anche lo studio e le carte dello scrittore.

Ho ripensato alla dimora di Piero e Mimma, alla collocazione attuale delle poltroncine del loro salotto.

Certo sono al centro dell’attenzione di chi transita per il museo varesino.

Ma, avendo più d’una volta visitato quella bella casa, e conoscendo la vivacità di chi l’abitava, provo una stretta al cuore.

E ripenso a un’altra frase, di Piero questa volta, consegnatami da Mimma nell’intervista.

Alzando gli occhi sulle cose belle e amate di cui s’era circondato e che stava per lasciare, quando la malattia lo incalzava ormai sempre più da vicino, le aveva sussurrato: “Come tutto è provvisorio” .

Ecco, ho infilato le tre parole nella collana dei ricordi.

Proprio come mi era stato chiesto.

Spero di avere fatto bene.

Soprattutto di avere usato il giusto filo perché la collana, a dispetto della provvisorietà, anche quella delle parole, possa durare nel tempo.

Luisa Negri