Conferenza stampa del generale Charles De Gaulle a proposito dell’entrata dell’Inghilterra nella CEE – 27 novembre 1967

Charles De Gaulle:

“Affrontiamo, cari amici, la questione dell’Inghilterra”.

 

Domanda di un giornalista:

“La svalutazione della sterlina apre forse delle prospettive all’entrata dell’Inghilterra nel Mercato Comune?

 

De Gaulle:

“Da quando esistono gli uomini e gli Stati, ogni grande progetto internazionale è ammantato da una sorta di mito seduttivo e questo rientra nella normalità delle cose perché all’origine dell’azione vi è sempre l’ispirazione.

Certo, quanto all’unità dell’Europa, oh!, come sarebbe bello, come sarebbe buono che questa potesse divenire un insieme fraterno e organizzato in cui ogni popolo trovi la sua sicurezza e prosperità!

Sarebbe meraviglioso che potessero sparire tutte le differenze di razza, di lingua, di ideologia, di ricchezza, di rivalità…le frontiere che dividono la terra da sempre…

Ma, andiamo! per quanto siano dolci i sogni, le realtà sono qui, a noi presenti, e a seconda che se ne tenga conto o no, la politica può essere un’arte abbastanza feconda oppure una povera utopia…

Perciò l’idea di unire le isole britanniche alla Comunità Economica formata da sei Stati continentali, suscita ovunque degli auspici che sono idealmente ben giustificati ma si tratta di capire se questo può essere fatto senza spezzare, lacerare, ciò che esiste.

Ora, vediamo i fatti: succede che la Gran Bretagna, con una insistenza e una fretta davvero sorprendenti, e di cui gli ultimi eventi monetari chiariscono alcune ragioni, ha proposto e riproposto, senza indugio!, l’apertura della negoziazione tra sé e i sei, in vista della sua entrata nel Mercato Comune e allo stesso tempo ha dichiarato di accettare tutte le disposizioni che regolano la comunità dei sei e questo mi è sembrato contraddittorio con la domanda di negoziazione; perché mai si dovrebbe negoziare su delle cose che sono in anticipo e interamente accettate?

Di fatto abbiamo assistito al quinto atto di una commedia durante la quale i comportamenti più diversi dell’Inghilterra nei riguardi del Mercato Comune si sono succeduti senza, per quel che sembra, somigliarsi.

Il primo atto lo abbiamo vissuto quando Londra si è rifiutata di partecipare all’elaborazione del Trattato di Roma del quale ha pensato che non sarebbe servito a niente.

Il secondo atto ha reso evidente l’ostilità di fondo dell’Inghilterra verso la comunità della costruzione europea appena questa cominciò a prendere forma.

E odo ancora i rilievi che a Parigi, fin dal giugno del 1958, mi rivolgeva l’amico Mc Millan, allora primo ministro, che confrontava…che minacciava…la guerra delle tariffe!

Il terzo atto fu una negoziazione tenuta a Bruxelles, durata un anno e mezzo, destinata a piegare la comunità alle condizioni dell’Inghilterra e che terminò quando la Francia fece osservare ai suoi partners che non si trattava di quel merito ma proprio del suo contrario.

Il quarto atto, all’inizio del governo Wilson, fu segnato dal disinteresse di Londra verso il Mercato Comune e il sostegno, intorno alla Gran Bretagna, degli altri sei Stati europei che formavano la zona del libero scambio e del loro grande sforzo per rafforzare i legami interni del Commonwealth.

E ora siamo al quinto atto per il quale la Gran Bretagna pone la sua candidatura e perché venga adottata si è impegnata lungo il sentiero di tutte le promesse e le pressioni immaginabili.

A dire il vero, un tale comportamento si spiega abbastanza facilmente: il popolo inglese comprende senza dubbio, sempre più chiaramente, che nel grande movimento che muove il mondo, di fronte all’enorme potenza degli Stati Uniti, quella in ascesa dell’Unione Sovietica, quella rinascente dei continentali, quella nuova della Cina, sono contenuti degli orientamenti sempre più centrifughi; le sue strutture e le sue abitudini nella gestione delle attività e anche la sua personalità nazionale sono ormai in causa e le gravi difficoltà economiche, monetarie, finanziarie, nelle quali versa, glielo fanno percepire giorno dopo giorno; da ciò deriva una tendenza a disegnare un quadro, fosse pure europeo, che le permetterebbe di salvaguardare le proprie sostanze e le consentirebbe di avere ancora un ruolo dirigenziale, di essere aiutata a portare una parte del suo fardello.

In questo non vi è nulla di salutare per lei e ben poco di soddisfacente per l’Europa a meno che il popolo inglese, così come quelli ai quali si augura di unirsi, voglia e sappia costringere se stesso ai cambiamenti fondamentali che saranno necessari affinché si stabilizzi in un proprio equilibrio.

Sì, perché ci vorrà, e si impone, una trasformazione radicale della Gran Bretagna allo scopo di unirsi ai continentali e questo, dal punto di vista politico, è evidente.

Ma oggi, per parlare solo del rapporto economico, la relazione che è stata inviata da Bruxelles ai sei governi, il 29 settembre scorso, dimostra con grande chiarezza che il Mercato Comune attuale è incompatibile con l’economia inglese così com’è.

Quindi, il deficit cronico della sua bilancia dei pagamenti rappresenta il culmine di uno squilibrio permanente e che comporta, in quanto alla produzione, alle fonti di approvvigionamento, alla politica del credito, alle condizioni del lavoro, dei dati di fatto che questo Paese non potrebbe cambiare senza modificare la propria natura.

IL Mercato Comune è incompatibile perfino con il modo in cui gli inglesi si alimentano, con la loro produzione agricola sovvenzionata al rialzo, con viveri acquistati a buon mercato ovunque nel mondo, nel Commonwealth.

Tutto ciò esclude che Londra possa mai accettare ciò che è previsto nel regolamento finanziario che sarebbe per lei schiacciante.

Anche le restrizioni all’uscita dei capitali che l’Inghilterra ha stabilito per sé è incompatibile con il Mercato Comune che prevede, al contrario, la libera circolazione tra i sei.

Il Mercato Comune è incompatibile con lo stato della sterlina, la sua svalutazione, così come i vincoli che l’hanno preceduta e l’accompagnano.

Una moneta che deve coniugarsi con il carattere delle altre monete internazionali quando le enormi pressioni esterne che pesano su di essa non consentirebbero che entri a far parte, attualmente, della società solida, solidale e sicura in cui si uniscono il marco, la lira, il fiorino, il franco.

In queste condizioni dove potrebbe portare ciò che chiamiamo “l’entrata dell’Inghilterra nel Mercato Comune”?

E se, malgrado tutto, volessimo imporla questo segnerebbe la deflagrazione di una comunità che è stata costruita e funziona secondo regole che non sopportano una tale monumentale eccezione…

Certo, devo aggiungere che non sopporterebbe neanche che si introduca tra i suoi membri principali uno Stato che precisamente per via della sua moneta, della sua economia, della sua politica, non fa parte, attualmente, dell’Europa così come abbiamo cominciato a costruirla.

Lasciar entrare l’Inghilterra, oggi, significa impegnarsi in una negoziazione a questo scopo e comporterebbe, per i sei, dare in anticipo il consenso a tutti gli artifizi, i rinvii e le ambiguità che tenderebbero a nascondere la distruzione di un edificio che è stato costruito con tanta fatica e con tanta speranza”.

 

Il testo è stato tradotto da Henry-Claire Nicoullaud