Alla ricerca della Tokyo perduta

Siamo nell’anno 1600.

Il Giappone, da circa 250 anni, vive un ininterrotto periodo di sanguinose guerre civili combattute dai vari Shogun (signori militari) sparsi su tutto il territorio dell’arcipelago.

Tali conflitti erano tutti accomunati da un unico denominatore: la volontà dei signori della guerra di porre il Sol Levante sotto il proprio controllo e portare, conseguentemente, quella stabilità politica ed economica da troppo tempo andata perduta.

Quest’epoca è stata ribattezzata, dagli storici giapponesi, come “Sengoku Jidai” (“Periodo degli Stati combattenti”).

Il caos generato da questi due secoli d’ininterrotta guerra iniziò ad avere fine con la comparsa, sulla scena politico-militare nipponica, di tre grandi condottieri che, come “dei ex machina” di ellenica memoria, riuscirono, in un arco temporale di circa 50 anni, a porre fine ai conflitti e a unificare il Paese.

I loro nomi erano Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu.

Fu in particolare quest’ultimo che, portando a compimento l’opera iniziata dai suoi due predecessori, riuscì nell’impresa di riunificare il Giappone con la vittoria nella decisiva battaglia di Sekigahara, combattuta il 21 ottobre del 1600.

Ieyasu, che oltre a essere un validissimo comandante militare si rivelò anche un politico di razza, capì ben presto che, per conservare il potere conquistato al costo di tanti sacrifici e di tanti morti, era necessario imprimere alla storia del Giappone una svolta radicale, che facesse concretamente intendere ai sudditi del Paese-arcipelago che tanto i rapporti di forza tra i signori feudali, quanto il sistema di governo, erano mutati per sempre.

Per trasmettere in modo inequivocabile urbi et orbi questo messaggio, Tokugawa Ieyasu prese la più drastica e, verosimilmente, inattesa, delle decisioni: optò – e impose – per un cambio di capitale.

La sua intenzione era, infatti, quella di allontanarsi quanto più possibile da Kyoto (capitale storica del Giappone per circa 1000 anni), per sottrarsi all’influenza sia della Corte Imperiale (di fatto spogliata di qualunque potere politico ed esecutivo con l’ascesa dei signori della guerra circa tre secoli prima) che del clero buddhista, il quale proprio a Kyoto e dintorni aveva (e ha ancora) i suoi principali centri culturali e spirituali.

Perciò, quando all’inizio del diciassettesimo secolo, sgominati i clan rivali e conquistato il potere su tutto il territorio nazionale, Ieyasu decise di spostare la capitale del Paese da Kyoto al piccolo villaggio di Edo, nessuno, nemmeno il più lungimirante degli osservatori dell’epoca, avrebbe potuto immaginare che quel piccolo borgo di provincia, in seguito ribattezzato Tokyo (“La Capitale d’Oriente), si sarebbe tramutato, nel corso dei secoli, in una delle più grandi città del mondo, centro di gravità della maggior parte delle mode e delle tendenze che attraversano l’arcipelago giapponese.

Tokugawa Ieyasu aveva scelto Edo quale proprio centro operativo fin dalla sua discesa nell’agone bellico-politico, anche se, a quel tempo, esso non era altro che un piccolo e anonimo villaggio di pescatori situato nella grande Piana del Kanto, nella parte centro-orientale dell’Isola di Honshu, affacciata sull’Oceano Pacifico.

Oggi Tokyo è una megalopoli di circa 18 milioni di abitanti, infarcita di tutti quei tipici elementi che la globalizzazione – sfortunatamente – ha portato nelle grandi città del mondo: cementificazione, grattacieli, catene di fast food tutte uguali, negozi di abbigliamento delle medesime marche a Tokyo come a New York, a Londra come a Milano, a Shanghai come a Parigi.

Se, però, le antiche xilografie dei grandi maestri d’arte del c.d. “mondo fluttuante” (“ukiyo –e”) quali Utamaro, Hokusai e Hiroshige ci hanno tramandato una rappresentazione veritiera della loro epoca, Tokyo, in passato, era immersa nel blu e nel verde.

Sponde dei fiumi rigogliose di canneti, collinette erbose e acquitrini ornati di salici piangenti caratterizzano la collezione di dipinti “Le cento vedute famose di Edo”, realizzata nel diciannovesimo secolo dal maestro Utagawa Hiroshige il quale, col suo geniale tratto artistico, ci ha tramandato in immagini lo splendore dell’antica Edo.

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L’elemento che cattura immediatamente l’attenzione, nelle xilografie del Maestro, è l’ubiqua presenza dell’acqua.

Acqua ovunque: idrovie, stagni, laghetti, vasti fiumi e angusti canali sovrastati da ponticelli di legno che s’incurvano delicatamente.

L’occhio del viandante che si fosse imbattuto per la prima volta nelle vie della vecchia Edo sarebbe stato dolcemente travolto da un mondo colorato di blu di Prussia.

Ecco che, là dove v’è acqua, vi sono le barche: barche ovunque che risalgono e discendono canali e fiumi; quelle da carico merci tipo sampan, sulle quali vengono accatastati i barili e condotte da piccoli uomini ricurvi per la fatica; così come quelle destinate al “piacere”, con le tende socchiuse a celare volti e identità delle cortigiane e dei loro mecenati.

La Tokyo di circa 150 anni fa, tramandata ai posteri dalle xilografie di Utamaro, Hokusai e Hiroshige, ci appare come un luogo estremamente poetico e romantico.

La domanda che vien da porsi, confrontando la città rappresentata nelle stupende xilografie dell’800 con l’ipertecnologica megalopoli attuale è la seguente: che cosa è successo? Perché Edo – poi Tokyo – è cambiata così radicalmente nel corso degli ultimi due secoli?

In una società frenetica come quella nella quale l’uomo del Ventunesimo secolo è costretto a vivere, “ostaggio” dello smartphone, delle email e della connettività immediata, si vaga spesso come fantasmi disinteressati lungo le strade delle nostre città, dimenticando di compiere, di tanto in tanto, l’azione umana più istintiva che non sia quella di nutrirsi o di riprodursi: ovvero quella di camminare.

Utilizzando un approccio che potrebbe essere valido per tutte le città del mondo, il camminare rappresenta la vera chiave di volta per comprendere Tokyo, la sua storia e la sua cultura.

Come scrive Roland Barthes nel suo ancor oggi insuperato “L’Impero dei Segni”: “Questa città non può essere conosciuta che grazie ad un’attività di tipo etnografico: bisogna orientarsi non con il libro, l’indirizzo, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine, l’esperienza: ogni scoperta è insieme intensa e fragile, non potrà esser ritrovata che grazie al ricordo di quella traccia che ha lasciato in noi.” (1).

Gli abitanti di Tokyo, per esempio, sono perfettamente consapevoli che la loro città è contornata in ogni dove di numerose zone collinari. Ma la gente, oggidì, per la maggior parte del tempo non cammina e, quindi, non “vive” le strade cittadine, ma utilizza la metropolitana o altri mezzi di locomozione.

Considerazione, quest’ultima, ancor più significativa nel caso di Tokyo, città nella quale la grande maggioranza delle stazioni ferroviarie urbane – sotterranee e non – sono concepite come enormi “città nelle città”, perfettamente vivibili e integrate nel tessuto urbano, piuttosto che come meri punti di raccordo fra un luogo e un altro.

La presenza dei sopracitati e numerosi dislivelli topografici è strettamente correlata alla storia della città.

Al tempo della sua fondazione e del primo, importante sviluppo urbanistico, infatti, Tokyo era suddivisa, fondamentalmente, in un due grandi aree distinte: la c.d. “shitamachi” (la “città bassa”, situata nella parte nord-orientale), da un lato, e la c.d. “yamanote” (la “città alta”, situata nella parte sud-occidentale).

Durante il Periodo Edo (1603-1868, epoca storica caratterizzata dal lungo dominio del clan Tokugawa), la “yamanote” era il distretto urbano nel quale i c.d. “daimyo” (signori feudali) avevano edificato le loro residenze. Al contrario, la “shitamachi” era il distretto dove abitava le gente comune.

Osservando attentamente una mappa topografica di Tokyo si può notare che lo spartiacque che divide questi due “mondi” (la “città alta” e la “città bassa”), ricade su di una linea quasi retta che unisce i due quartieri di Ueno (nel nord-est cittadino) e di Meguro (situato nella zona a sud-ovest), dove l’altipiano di Musashino fa strada al delta del fiume Sumida.

Da qui il palazzo imperiale, edificato sulle macerie di quello che, un tempo, era il Castello di Edo (dimora e base logistica degli shogun Tokugawa), si erge esattamente sulla sommità di quella che, un tempo, era la “yamanote”, con un’imponente visuale sulla vecchia “shitamachi” e sulla baia di Tokyo.

E’ stato detto e scritto più volte che, nonostante Tokyo sia una città di fatto priva di un “centro” e di una “periferia” (essendo sorta ed edificata senza un preciso piano regolatore), proprio il palazzo imperiale costituirebbe il vero “centro” del tessuto urbano della capitale giapponese; il fulcro dal quale, a raggiera, si dipanerebbe la vita cittadina.

Tale concetto non mi trova propriamente d’accordo, a meno di non interpretarlo alla maniera in cui lo intendeva – ancora una volta – Roland Barthes, il quale distingueva fra “centro-città” (concetto riferibile alla maggior parte delle grandi conurbazioni mondiali, ideate ed edificate a piante quadrangolari e reticolari come, ad esempio, Los Angeles, Xian e Kyoto) e “centro vuoto” (concetto e idea riferibile, a suo parere, alla sola Tokyo nel mondo).

Prendo ancora una volta in prestito le parole dell’Autore, in quanto tanto chiare e perfette da non poter essere in alcun modo parafrasate: “La città di cui parlo (Tokyo) presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tuttavia la città ruota attorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua, abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè, letteralmente, da non si sa chi. … Una delle due città più potenti del mondo moderno è dunque costruita intorno ad un anello opaco di muraglie, d’acque, di tetti e di alberi, il cui centro stesso non è altro che un’idea evaporata, che sussiste non per irradiare qualche potere, ma per offrire a tutto il movimento urbano il sostegno del proprio vuoto centrale, obbligando la circolazione a una deviazione perpetua. In questo modo, a quel che si dice, l’immaginario si dispiega circolarmente, per corsi e ricorsi, intorno a un soggetto vuoto(2).

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Il palazzo imperiale, “centro vuoto” di Tokyo (Foto di Edoardo Quiriconi)

 

Uno sguardo più attento alla topografia della “città alta” rivela un’istantanea ancor più complessa: la “yamanote” medesima è, infatti, perforata e attraversata da innumerevoli, piccoli fiumi che scorrono verso la baia affacciata sull’Oceano Pacifico e da ruscelletti che terminano la loro corsa in paludi e stagni.

Il risultato di migliaia di anni di questo logorio dell’acqua ai danni della terra si sostanzia in un’ondeggiante irregolarità, in una serie di colline e di vallate.

Tokyo è circondata, ai suoi estremi confini, da vulcani quali il Monte Fuji e il Monte Hakone: quando questi ultimi eruttarono, in passato, dispersero polvere magmatica su tutta la regione del Kanto e, come risultato, il terreno cittadino è impregnato di detta polvere per circa 20 metri in profondità.

Un aspetto della capitale del Sol Levante di grande interesse storico-urbanistico risiede nel fatto che, nonostante la recente costruzione di grattacieli e di edifici modernissimi, la sua topografia è rimasta tale e quale a com’era nel diciassettesimo secolo, agli albori della sua storia.

Tokyo, infatti, divenne una vera e propria città nel Periodo Edo (1603-1868), circa 400 anni fa. Non esistendo all’epoca la tecnologia necessaria per livellare il terreno, tutto dovette essere edificato a mano: fatto, questo, che ha impedito la trasformazione della capitale giapponese in una città “piatta” e livellata.

Se Tokyo fosse stata edificata al giorno d’oggi, le vallate e i dislivelli che si possono trovare in ogni dove nella metropoli sarebbero stati verosimilmente livellati e, di conseguenza, lo scenario urbano sarebbe stato completamente diverso. Ma 400 anni fa, data la carenza tecnologica, la città dovette essere costruita per adattarsi alla topografia, e tale caratteristica si è fortunatamente preservata fino all’età contemporanea.

Come detto, laddove i signori feudali edificarono le loro residenze e i loro quartieri generali al sicuro, in cima alle colline della “yamanote”, le gente del popolo, come gli artigiani, i commercianti e gli agricoltori si stabilirono nel bel mezzo delle vallate bagnate dai numerosi fiumi e ruscelli.

La scelta della località da parte della gente comune venne effettuata in funzione di una sistemazione efficiente e intelligente: il deflusso delle acque dai fiumi generò, infatti, le condizioni ideali per la coltivazione del riso, da sempre alimento basilare nella dieta dei popoli dell’Estremo Oriente.

Le fondamenta dell’attuale Tokyo, sorte durante il Periodo Edo, sono ancora ben presenti dal punto di vista della strutturazione cittadina.

Oggigiorno, infatti, sono ancora ben visibili le differenze e le specificità fra i quartieri sorti in quelle che, un tempo, erano la “yamanote” e la “shitamachi”.

Laddove, infatti, la parte sud-occidentale di Tokyo (dove, come detto in precedenza, anticamente era situata la “yamanote”) è quella della megalopoli commerciale illuminata a giorno anche di notte, dei grandi magazzini e dello shopping compulsivo; la parte nord-orientale (sede dell’antica “shitamachi”), con le sue basse case-bottega – spesso ancora costruite in legno e con le caratteristiche “shoji”, le porte di carta scorrevoli –, le piccole vie commerciali (“shotengai” in giapponese) e i suoi caratteristici quartieri quali Nippori, Kanda, Nezu e Ochanomizu (miracolosamente sopravvissuti, almeno in parte, ai numerosi terremoti e ai bombardamenti patiti durante il secondo conflitto mondiale), riporta alla mente un Giappone che, in gran parte, non c’è più.

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Shinjuku, il centro politico e finanziario della “nuova” Tokyo (Foto di Edoardo Quiriconi)

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(Foto di Edoardo Quiriconi)

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Casa-bottega nel distretto di Nippori: una città nella città, un altro Giappone (Foto di Edoardo Quiriconi)

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Il vecchio quartiere di Ochanomizu (Foto di Edoardo Quriconi)

 

D’altronde, anche a livello funzionale e di occupazione degli spazi urbani, la distinzione “yamanote”-“shitamachi” si è protratta nei secoli: quelle che, una volta, erano le ville e le residenze feudali, appartengono oggi ai membri della c.d. “kachi gumi” (la “società dei vincenti”, di chi “ce l’ha fatta”): uffici governativi, ambasciate, università, ospedali, grandi banche d’affari e importanti studi professionali.

In epoca contemporanea, tre sono stati gli avvenimenti che hanno contribuito a modificare per sempre – fatta salva, come detto, qualche area fortunata nella parte nord-orientale – la fisionomia urbana di Tokyo.

Il primo fu il grande terremoto del Kanto del 1923 il quale, oltre ai danni sismici, determinò una serie di incendi che, propagatisi, misero a ferro e fuoco gran parte della città: a quell’epoca in Giappone le case erano quasi tutte costruite in legno e carta, ragion per cui il fuoco ebbe vita facile a espandersi e a divenire ben presto un unico, gigantesco rogo incontrollabile.

Le vittime furono circa 120.000 e, in fase di ricostruzione, si optò per un progressivo abbandono del legno in favore di materiali più sicuri in quanto meno infiammabili.

Il secondo evento determinante nella storia urbanistica di Tokyo fu la devastante, crudele nonché inutile serie di bombardamenti a tappeto da parte dell’aviazione americana tra il febbraio e l’aprile del 1945.

Tali raid (condotti in modo indiscriminato sulla popolazione civile, quando l’obiettivo dichiarato dagli Alleati era quello di distruggere ciò che restava dell’agonizzante industria bellica nipponica), oltre a causare un numero di vittime ormai stimato tra le 150.000 e le 200.000, rase al suolo la capitale giapponese ancora una volta, rendendo necessario, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, procedere a un’ulteriore ricostruzione, sempre più all’insegna dei grandi edifici e della cementificazione.

Il terzo e ultimo “momento” che ha contribuito a rendere Tokyo ciò che è oggi è rappresentato dalle Olimpiadi del 1964, in occasione delle quali la capitale giapponese ha subìto un’imponente opera di riqualificazione urbanistica, lasciando in eredità ai suoi abitanti la prima versione della rete ferroviaria “Shinkansen”, i famosi treni-proiettile che, oggigiorno, attraversano tutto il Paese da nord a sud.

Eppure, pur fra tanti grattacieli, tanto vetro, tanto cemento, tante luci al neon e tanto consumismo, basta raggiungere stazioni quali quelle di Ueno, Nippori, Kanda o Yanaka lassù, nel nord-est, attendere che faccia sera e che le lanterne rosse che adornano l’ingresso delle minuscole tavole calde a gestione familiare si accendano, per avvolgere il nastro del tempo e tornare, come d’incanto, a quella Tokyo “lontana”, tanto cara ai vari Utamaro, Hokusai e Hiroshige, che in gran parte, e purtroppo, non c’è più.

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Distretto di Yanaka (Foto di Edoardo Quiriconi)

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Distretto di Yanaka (Foto di Edoardo Quiriconi)

 

La Tokyo poetica e romantica del “mondo fluttuante”. La Tokyo dello “ukiyo – e”.

 

Edoardo Quiriconi

 

(1) Roland Barthes: “L’impero dei segni”, Einaudi, Torino, 1984, pag. 46. L’Autore, uno dei massimi semiologi del ‘900, vergò questo breve saggio sul Giappone alla fine degli anni ’60 dopo avervi viaggiato in compagnia di Maurice Pinguet, all’epoca direttore del Centro di Studi Giapponesi di Parigi. A distanza di 46 anni dalla prima pubblicazione (il libro fu edito in Francia nel 1970) è sorprendente come le annotazioni, le riflessioni e gli appunti di viaggio di Barthes sulla società e la cultura giapponesi siano ancora tanto attuali e in grado, in poche ed essenziali pagine, di cogliere le numerose sfaccettature di una civiltà tanto “lontana”. E – cosa ancor più sorprendente – tutto questo nonostante l’Autore non fosse né uno yamatologo né mai, in precedenza, avesse avuto qualsivoglia frequentazione con il Giappone e con la sua civiltà.

 

(2) Roland Barthes, op. cit., pp. 39-42.