Come il cinema per il cioccolato

Cinema e cioccolato

“La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”.

Così Forrest Gump, ovvero Tom Hanks, nell’omonimo film di Robert Zemeckis del 1994.

Un sempliciotto dalla tenacia indistruttibile che attraversa (correndo) la storia americana del secondo dopoguerra, dalla sua nascita all’incontro con Elvis al Vietnam, fedele a questa ‘filosofia dei cioccolatini’, una sorta di fatalismo edificante.

Potrebbe proprio essere Forrest Gump l’ideale Virgilio di questo nostro breve viaggio nei meandri del rapporto tra cinema e cioccolato, entrambi dispensatori di piacere e desiderio, fatti apposta per… amarsi. E fin dagli esordi, dalla preistoria della settima arte.

Una storica del cinema italiano, Matilde Tortora, ha attentamente studiato l’utilizzo pubblicitario che di film e divi veniva fatto negli anni dieci del secolo scorso da parte delle principali industrie di cacao italiane, scoprendo cose molto interessanti.

I fotogrammi delle pellicole di allora venivano infatti stampati su apposite cartoline, spesso colorate con un sistema di viraggio allora molto in uso, chiamato ‘pochoir’, che riportavano sul retro le reclame del cioccolato.

Testimonial delle cartoline erano dive di allora come Francesca Bertini, Lydia Borrelli e Pina Menichelli, spesso immortalate in pose provocanti a voler intendere che anche il consumo di cacao ha in sé un che di erotico.

Il risultato degli studi di Tortora è raccolto in un prezioso volume edito da Mongolfiera, dal titolo emblematico: Cinema fondente (2001).

“C’è stato un tempo” – spiega Matilde Tortora nel volume – “databile all’incirca agli anni dieci del Novecento e dunque all’epoca gloriosa del cinema muto, in cui le industrie di cioccolato, per pubblicizzare i loro prodotti, stampavano in serie, su piccoli supporti cartacei, alcuni fotogrammi di uno stesso film, così da dare di quei film una traccia ferma, duratura e fortemente indiziaria, riassuntiva dell’intero corpo di immagini della pellicola”.

Va detto che l’esperimento commerciale italiano, di grande successo, è stato preso d’esempio anche altrove.

Una marca di cioccolato belga, la  COOP S. G. C. Micheroux, raggiunse un accordo con la Metro Goldwyn Mayer per stampare delle cartoline, anzi, vere e proprie figurine, dedicate al Tarzan interpretato tra gli anni Trenta e i Quaranta da Johnny Weissmuller.

Oggi gli album di queste figurine, editate fino agli anni Cinquanta, hanno grande valore presso i collezionisti.

Ma torniamo al nostro Cicerone, Forrest Gump, che vede la vita come una scatola di cioccolatini.

Uno che probabilmente la pensa come lui è il magico Willy Wonka, personaggio ispirato al cappellaio matto di Lewis Carroll ma inventato dall’autore di letteratura per ragazzi, Roald Dahl.

È al centro di due film: Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, con Gene Wilder, del 1971, e La fabbrica di cioccolato di Tim Burton, con Johnny Depp, del 2005.

Wonka è un mastro cioccolataio che in un’Inghilterra fiabesca, con accenti comunque dickensiani, nasconde in cinque tavolette dei biglietti d’oro che permetteranno al proprietario di visitare la sua grandiosa fabbrica, e di vincere un premio speciale.

Tra i cinque vincitori il piccolo Charlie, un bambino povero, che quindi entra nel regno di Wonka e dei suoi operai cioccolatieri, i mitici Umpa Lumpa.

Sebbene in entrambi i film sia centrale la figura del bambino, è Willy Wonka ad attirare tutte le attenzioni.

Un uomo bizzarro mai cresciuto veramente che ricrea nella magione un mondo di cacao, a immagine e somiglianza della sua psiche favolosa.

Senza nulla togliere al più vintage Gene Wilder, Johnny Depp è un ottimo Wonka, in alcuni tratti simile a Michael Jackson (la fabbrica immaginata da Burton richiama Neverland, la reggia a misura di bambino del musicista).

L’attore è un habitué del cacao, infatti impossibile non citare in questa sede Chocolat di Lasse Hallström (2000), di grande successo.

In un immaginario villaggio francese negli anni Cinquanta, Johnny Depp interpreta un affascinante zingaro che si innamora della mastra cioccolataia Juliette Binoche, invisa ai bigotti abitanti del paese perché la sua cioccolateria apre durante la quaresima.

Chocolat è forse il film dove più manifesta è la metafora ‘erotica’ del consumo di cioccolato, applicata al fascino del cinema e dei suoi divi.

Alla voluttà del cacao anche i più rigidi moralisti capitoleranno nel finale, quando la donna darà una grande festa ovviamente ‘fondente’.

A proposito del binomio cioccolato-eros va almeno citato un altro titolo importante, Come l’acqua per il cioccolato di Alfonso Arau (1992), storia del contrastato amore di due giovani che le convenzioni familiari e sociali ostacolano nella loro relazione, destinata infatti a finire in tragedia.

Il titolo allude a una frase idiomatica spagnola, “como agua para chocolate”, che si riferisce a una persona travolta dalla passione: bollente “come l’acqua per fare la cioccolata calda”.

Se il cibo è un linguaggio, lo è anche per veicolare messaggi rivoluzionari.

Fece scalpore al festival di Berlino, dove vinse l’Orso d’argento nel 1994, il film Fragola e cioccolato di Tomás Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabi, storia sentimentale di due ragazzi, David e Diego, che comunicano attraverso il cibo, e il cioccolato in particolare, il loro amore.

Tutto questo a Cuba, paese dove l’omosessualità è un reato punito con il carcere.

Ma al di là dell’eros veicolato attraverso le tavolette o i cioccolatini, il potere taumaturgico del cacao è scientificamente provato e naturalmente reso ‘narrativo’ dal cinema.

Ne sa qualcosa Nanni Moretti, noto cultore della Sacher Torte viennese, al quale si deve però un’altra sequenza di culto.

In Bianca (1984), l’alter ego interpretato dallo stesso regista, Michele Apicella, divora con vistosa soddisfazione un’enorme fetta di pane e nutella, come rimedio sicuro contro la depressione e forse, chissà, la solitudine.

Sempre restando al cinema italiano, conviene almeno citare la bella commedia di Claudio Cupellini, Lezioni di cioccolato (2007), di cui esiste anche un seguito meno riuscito (Lezioni di cioccolato 2, 2009) conseguenza del successo di pubblico forse inatteso.

Neri Marcorè interpreta un mastro cioccolatiere della Perugina (e il riferimento, trattandosi anche di una storia d’amore tra due giovani interpretati da Violante Placido e Luca Argentero, è ai mitici Baci della maison umbra) che decanta le virtù della sua preziosa materia prima.

Eppure l’attrattiva naturale che il cioccolato può esercitare sulle persone nel cinema è stata sfruttata anche per scopi poco nobili, se non apertamente malefici.

È il caso dell’acclamato Grazie per la cioccolata di Claude Chabrol (2000) dove Isabelle Huppert, borghese di provincia e ottima cuoca, decide di appianare le problematiche familiari somministrando alle “vittime” un’invitante cioccolata al… veleno.

E rimanendo al côtè se vogliamo più diabolico del cacao su grande schermo, mi piace concludere con una piccola chicca made in Britain, poco conosciuta o ricordata da noi: Cioccolato bollente (1988).

Scritta dallo scatenato gruppo comico dei Monthy Python, è una commedia che racconta di uno scaltro cioccolataio che riesce a piazzare una partita di cioccolatini farciti nel cui impasto sono finiti, sciogliendosi, tre operai.

Di fronte all’entusiasmo degli ignari clienti, che trovano i nuovi dolciumi squisiti, l’uomo decide di implementare la produzione dell’insolita farcitura la cui materia prima non è più, o non è solo, il cacao, ma anche i cadaveri!

Mauro Gervasini