Alfredo Binda, il vero ‘campionissimo’ nel trentesimo anniversario della morte 19 luglio 1986

Varese, 19 giugno 2016

 

Basta che un primo, tiepido raggio di sole faccia capolino tra le nuvole perché le strade del Varesotto (che, contrariamente a quanto viene detto e scritto, è solo la parte alta della provincia varesina, quella che va dal capoluogo alla Svizzera e alla sponda ‘magra’del Maggiore) vengano invase da un numero incredibile di ciclisti, amatori, dilettanti o professionisti che siano.

Così è ancora e da sempre, tanto che proprio qui sono nati molti tra i più grandi dello sport delle due ruote, a partire da Luigi Ganna, che vinse il primo Giro d’Italia nel lontanissimo 1909, per arrivare a Stefano Garzelli, capace di affermarsi nell’ultimo Giro del Novecento, e a Ivan Basso, due volte primo in anni più recenti.

Naturalmente, il nostro ‘campionissimo’ resta Alfredo Binda del quale molto si è tornato a parlare anni orsono per via del fatto che Mario Cipollini, nel 2003, è, finalmente, (dopo settant’anni!) riuscito a superare il suo record di vittorie di tappa complessivamente conseguite (quarantuno) nella corsa rosa.

Per il vero, l’impresa di ‘Supermario’nemmeno si avvicina a quella a sua tempo compiuta dal cittigliese che, per lo più, vinceva in solitario (e non, comunque, in volate guidate e decise da compagni di squadra abilissimi nel preparare il terreno al finisseur il cui sforzo, alla fine, dura si e no duecento metri), infliggendo ai  rivali minuti e minuti di distacco.

Ho conosciuto Binda nel 1951 – me lo presentò mio padre, tra gli organizzatori della manifestazione – allorché, Commissario Tecnico della Nazionale azzurra ai mondiali su strada che si svolgevano  proprio a Varese, non riuscì ad evitare che i troppi galli nel pollaio (la squadra poteva contare addirittura su Fausto Coppi, Gino Bartali, Fiorenzo Magni e Toni Bevilacqua – gli ultimi due citati si  classificarono nell’ordine secondo e terzo) battibeccassero tra loro, tanto che la vittoria – ero sul traguardo e ricordo bene la volata – andò al nasuto e furbo svizzero Ferdy Kubler.

Avevo sette anni e la delusione fu grandissima anche perché pensavo che Binda, come CT, avesse la bacchetta magica: non era lui, forse, che, sia nel 1948 che nel 1949, aveva guidato i nostri a stravincere il Tour de France?

Molti anni dopo, oramai giovanotto, scoprii per caso che Binda frequentava il parrucchiere di via Volta, quello sotto i  portici, vicino alla centralissima piazza Monte Grappa.

Desideroso di incontrarlo e  non conoscendo, naturalmente, i suoi orari, pensai fosse opportuno bivaccare, quasi all’agguato, in quel negozio il più a lungo possibile.

Fu in tal modo che presi l’abitudine (che conservo tuttora) di farmi fare la barba e di  leggere e commentare dal barbiere, con gli altri clienti e i lavoranti, la Gazzetta dello Sport e la Prealpina, il quotidiano della nostra Varese.

In soggezione – per quanto fosse persona, nel suo riserbo, socievole – quando alla fine Binda arrivava, lo stavo a guardare e a  sentire senza proferire parola.

Così si sta, ammirati, di fronte a un monumento!

Nato nella amatissima Cittiglio, alla quale tornerà sempre con gioia, ai piedi della mitica arrampicata del Cuvignone (che, con il Sasso di Gavirate e il Brinzio, infinitamente ripercorsi, fecero di lui un  fior di scalatore) sulla strada che congiunge Varese a Laveno e al lago Maggiore, l’11 agosto del 1902, Alfredo Binda rimane, senza tema di smentita, il ‘vero’ Campionissimo delle due ruote.

A distanza  di un’infinità di giorni dalle storiche imprese che seppe compiere, infatti, molti suoi record, alcuni dei quali assolutamente particolari, sono tuttora imbattuti (al massimo, eguagliati) ed altri sono  risultati decisamente insuperabili.

E’stato tre volte campione del mondo tra i professionisti, vincendo l’edizione inaugurale della corsa iridata nel 1927 ad Adenau e ripetendosi a Liegi nel 1930 e a  Roma nel 1932, e, nei tanti decenni da allora trascorsi, solo Rick Van Steenbergen, Eddy Merckx e il velocista spagnolo Oscar Freire Gomez sono riusciti ad indossare come lui in altrettante occasioni l’ambitissima  maglia.

Per primo in ordine di tempo, ha dominato cinque Giri d’Italia: nel 1925 (preso il comando della classifica generale al termine della frazione Roma/Napoli avendo staccato  Girardengo, subito dopo l’arrivo, era talmente fresco che, per festeggiare, si fece prestare da un musicante una tromba con la quale suonò un’aria imparata da ragazzo in Francia: ‘Retraite aux  flambeaux’), nel 1927, nel 1928, nel 1929, nel 1933 e il suo exploit è stato pareggiato esclusivamente da due veri ‘mostri sacri’ quali Fausto Coppi ed Eddy Merckx.

Ha vinto in un’unica edizione del Giro  ben dodici tappe (sulle quindici in programma!).

Correva il 1927 e si può tranquillamente scommettere che nessuno potrà in futuro, come è accaduto nel passato, nemmeno avvicinarsi a un tale record.

Sempre nel 1927, si impose sulle strade della corsa ‘rosa’in otto frazioni consecutive.

È risultato fra i pochissimi capaci di guidare la classifica generale della grande corsa italiana dalla prima all’ultima giornata.

Ancora al Giro, nel 1933, ha vinto la prima tappa a cronometro mai disputata e si è aggiudicato il primo Gran Premio della Montagna.

Gli appartiene altresì un primato, per così dire, ‘alimentare’: nel 1926, in occasione del vittorioso Giro di Lombardia nel quale ebbe modo di umiliare (lo distaccò di circa mezz’ora) il grande Bottecchia, vincitore di due Tour, ingoiò la bellezza di ventotto uova, due, cotte, in attesa del via e ventisei, crude, durante la durissima corsa!

Di più, come tutti i cultori delle due ruote sanno, è il solo campione che fu pagato per non correre!!

Si era nel 1930 e Binda, reduce da tre devastanti affermazioni consecutive nella competizione  organizzata dalla Gazzetta dello Sport, si vide convocare a Milano dal direttore dell’epoca della rosea Emilio Colombo.

Una sua partecipazione avrebbe tolto ogni interesse alla gara vista la schiacciante  superiorità dimostrata.

Gli offrirono ventiduemilacinquecento lire, una cifra pari al mancato guadagno per la vittoria finale e comprensiva del compenso previsto per un certo numero di affermazioni parziali.

Alfredo accettò assai malvolentieri: “Sono un professionista”, aveva detto ai suoi dirigenti che, avvertiti da Colombo delle intenzioni degli organizzatori, cercavano di convincerlo ad accogliere la richiesta, “e quindi devo correre”.

(Accettò, dicevo, ma volle gli fossero liquidati anche i compensi spettanti per le vittorie di tappa – raggiunse un accordo forfettario in merito – che avrebbe senza dubbio collezionato).

Sentiva, forse, che quella esclusione gli avrebbe impedito di vincere il Giro d’Italia non cinque ma sei volte e di issarsi in un empireo nel quale nessuno mai sarebbe stato nemmeno in grado di raggiungerlo.

Benchè avesse iniziato a correre e a vincere in Francia, nei dintorni di Nizza, laddove era emigrato per lavorare come stuccatore nella impresa edile dello zio materno, Binda risultò allergico al Tour al  quale partecipò una sola volta, nel 1930, ritirandosi.

Seppe, però, rifarsi con gli interessi nelle vesti, che gli andavano a pennello, di Commissario Tecnico della Nazionale italiana visto che sotto la sua oculatissima guida (fece in modo che i due acerrimi ‘nemici’ Coppi e Bartali e il cosiddetto ‘terzo uomo’ Fiorenzo Magni andassero d’amore e d’accordo) gli azzurri si affermarono nella Grande Boucle quattro volte.

Nel 1948 vinse Gino Bartali, l’anno dopo e nel 1952 fu Fausto Coppi a battere tutti, infine, nel 1960, canto del cigno, ecco il ‘colpo’ messo a segno da Gastone Nencini il cui trionfo fu accompagnato dalle belle imprese dei due giovani  scalatori Graziano Battistini, alla fine secondo, ed Imerio Massignan, vincitore del Gran Premio della Montagna, che aveva saputo ‘manovrare’ con grande astuzia sul campo.

Numerosissimi, poi, le vittorie di tappa e i piazzamenti.

Ai mondiali, dapprima, nel 1953 a Lugano, il successo ‘da lontano’ ancora di Coppi – al quale passò idealmente dall’ammiraglia il testimone considerando che il precedente successo iridato italiano era quello conquistato a Roma nel 1932 dallo stesso C.T. – quindi, la bella impresa di Ercole Baldini nel 1958.

Maestro di ciclismo, ma non solo, resta nella memoria anche per la sua famosissima espressione dialettale: “Ghe voren  i garun” alla quale, però, nelle numerose interviste e nel suo libro intitolato ‘Le mie vittorie e le mie sconfitte’ seppe aggiungere: “Con le sole gambe non si diventa qualcuno. Ci vuole la testa!”

Di lui, nel modo che segue, ebbe a scrivere Piero Chiara illuminandone il carattere:

“Mi impressionavano la sua leggendaria calma, la sua serenità, la sua tranquillità…

Binda era un antidivo, una  persona riservata che faceva il suo lavoro con estrema serietà, senza ostentazione.

La folla lo riteneva un freddo.

In realtà era una persona coscienziosa e scrupolosa alla quale piaceva lavorare in silenzio.

Fossero così molti italiani”.

Mauro della Porta Raffo