All’origine del peggioramento dei rapporti tra gli USA e l’America Latina

(Jacobo Arbenz Guzman e Fidel Castro in particolare)

Come ottimamente ricorda Ennio Di Nolfo nel trattato ‘Storia delle relazioni internazionali’, nel 1948, al termine dei propri lavori, la Conferenza Interamericana riunita in Bogotà approva una Dichiarazione nella quale si afferma che l’attività politica del comunismo internazionale è incompatibile col concetto stesso di libertà come concepito nel, connaturato al, Nuovo Continente.

Arrivato alla Casa Bianca il 20 gennaio 1953, Dwight Eisenhower, guardando con preoccupazione ai diversi movimenti e accadimenti latino americani, invia in quelle terre il fratello Milton, spesso suo consulente in questioni politico/culturali.

Al termine di un lungo e articolato viaggio, Milton Eisenhower presenta una relazione nella quale evidenzia in specie le difficoltà economiche nelle quali versano i Paesi visitati e la necessità di collaborare con loro al fine di evitare soprattutto una possibile, latente infiltrazione comunista.

L’attenzione, aggiunge – confortato dalle conclusioni raggiunte sul tema anche dal generale Walter B. Smith, altro collaboratore del presidente – doveva rivolgersi in primis agli Stati dell’America Centrale.

Per quanto, all’inizio (nel precedente 1951), non pochi anche a Wahington abbiano guardato a Jacobo Arbenz Guzman e alla sua avventura in Guatemala con simpatia, malauguratamente – a mio modo di vedere il comportamento degli USA nella ‘questione guatemalteca’ sarà disdicevole e per di più porterà l’intero continente latino americano su posizioni di contestazione e rifiuto – nell’amministrazione Eisenhower prevarrà l’idea di intervenire per bloccarne l’azione fortemente riformatrice.

 

(Sul tema Jacobo Arbenz Guzman, come su quello Fidel Castro, mi sono lungamente intrattenuto nel mio ‘Il continente della speranza? Storia e storie dell’America Latina’ nonché, quanto al primo, fuggevolmente, in altra parte di questo stesso testo.

Fra poche righe, al fine di meglio illustrare vicende tanto decisive per gli Stati Uniti, riporto parte degli scritti ora indicati).

 

E’ proprio a partire dal 1953 – anno, come detto, dell’insediamento del presidente repubblicano – che comincia a dipanarsi, con il fallito assalto alla caserma della Moncada, la successiva detenzione e l’espatrio dipoi in Messico, la lunga storia castrista.

 

Cosa succede quando si avversa Jacobo Arbenz Guzman

Jacobo Arbenz Guzman, successore di Juan José Arévalo, secondo dopo una lunga teoria di caudillos e dittatori,  fu democraticamente eletto presidente del Guatemala il 15 dicembre 1951.

Passarono solo sei mesi e il suo governo, mantenendo le promesse fatte dal nuovo capo dello Stato ai campesinos e agli indios nel corso della campagna politica, promulgò la tanto attesa e rivoluzionaria riforma agraria: erano oggetto d’esproprio i fondi incolti e destinati a pascolo di estensione superiore ai novanta ettari e quelli non direttamente coltivati, erano esentate le aziende a coltivazione intensiva, i terreni demaniali potevano essere concessi in usufrutto perpetuo a singoli individui o a cooperative.

In poco più di un anno, circa cinquecentomila ettari sottratti ai latifondisti furono così ridistribuiti ai contadini.

Tra i possedimenti oggetto di esproprio, ottantatremilaventinove ettari per l’appunto incolti appartenenti alla potentissima multinazionale americana United Fruit Company.

Accusato per mezzo di una ben orchestrata manovra propagandistica di essere un comunista, Arbenz, che, nel frattempo, per fronteggiare l’opposizione USA, aveva cercato di avvicinarsi all’URSS, dovette affrontare nei primi mesi del 1954 da principio l’ostilità dei governi circonvicini e, in seguito, una vera invasione, organizzata dalla Cia (Allen Dulles, allora capo appunto dell’Agency e fratello del segretario di stato dell’amministrazione Eisenhower John Foster Dulles, era all’epoca l’avvocato della citata United Fruit Company!), di fuoriusciti guatemaltechi agli ordini del colonnello Carlos Castillo Armas.

Gli eventi precipitarono rapidamente e il presidente fu costretto, per evitare una sanguinosa guerra civile, a dare le dimissioni.

Si era tra il 27 e il 28 giugno 1954.

Di tutto questo, forse, non metterebbe conto parlare non fosse per il fatto che Ernesto ‘Che’ Guevara è proprio alla sua esperienza nel Guatemala di Arbenz che ha più volte fatto riferimento indicandola come momento decisivo di formazione politica.

Il ‘Che’, infatti, nel vivo di quella vicenda e in conseguenza del suo andamento ricavò alcuni punti fermi del successivo proprio operare.

Guevara era arrivato in Guatemala nel dicembre del 1953 nel corso del secondo viaggio intrapreso in esplorazione del continente latino americano.

L’intendimento era di mettersi al servizio del governo Arbenz  in qualità di medico.

Il pensiero del Che a proposito della pacifica ‘rivoluzione’ messa in atto dal presidente guatemalteco e l’effetto che su di lui ebbe la rapida fine del governo riformatore sono benissimo evidenziate dal contenuto delle lettere che inviò all’epoca ai familiari e alla madre in specie in Argentina.

Nella prima, dipinge Arbenz Guzman come “un uomo duro, senza dubbio disposto a morire al suo posto se necessario” e, conseguentemente, si offre per il servizio di pronto soccorso medico per le costituite brigate giovanili che, ritiene, dovrebbero addestrare militarmente i sostenitori del legittimo governo.

Arbenz, però, al dunque, confidando nell’aiuto dell’esercito, si rifiuta di difendersi dagli invasori distribuendo armi al popolo a cui continua a chiedere di mantenere la calma per evitare un bagno di sangue.

Guevara ne comprende gli intenti e ne giustifica l’azione.

Caduto il presidente e verificata l’impossibilità di una rivoluzione disarmata, in una missiva indirizzata di nuovo alla madre e datata 4 luglio, il ‘Che’ scrive:

“Tutto è accaduto come in un bel sogno che si cerca di far continuare anche da svegli.

La realtà sta bussando a molte porte e cominciano già a suonare le scariche che premiano la più accesa adesione all’antico regime.

Il tradimento continua ad essere patrimonio dell’esercito e una volta di più resta provato l’aforisma che indica nella liquidazione dell’esercito il vero principio della democrazia (e se l’aforisma non esiste, lo creo io)”.

La lettera prosegue descrivendo la sproporzione di forze esistente tra gli invasori e i cittadini fedeli ad Arbenz cui addebita di non avere compreso che il momento richiedeva la distribuzione di idonei mezzi di difesa a tutti perché “un popolo in armi è un’arma invincibile”.

“La cruda verità – conclude – è che il presidente non ha saputo essere all’altezza delle circostanze”.

Di lì a poco, si rifugia in Messico.

L’esperienza e la delusione guatemalteca l’hanno segnato.

E’ pronto alla lotta contro l’imperialismo e all’adesione ai principi marxisti.

Nel successivo novembre 1955, a casa di Maria Antonia Gonzales, incontrerà un giovane avvocato cubano in esilio che sta operando per organizzare una rivoluzione nell’isola: è Fidel Castro.

Anni dopo, il 30 luglio 1960, il ‘Che’, inaugurando a Cuba il primo Congresso Latino americano della Gioventù, rivolgendosi ad Arbenz Guzman, invitato per l’occasione, dirà:

“Vogliamo salutare in modo particolare Jacobo Arbenz, presidente della prima nazione latino americana che alzò la voce senza paura contro il colonialismo e che attraverso una riforma agraria profonda e coraggiosa espresse l’aspirazione delle sue masse contadine.

E vogliamo ringraziare lui e quella democrazia che dovette soccombere per l’esempio datoci e per averci permesso una esatta valutazione delle deficienze che quel governo non poté superare, il che ha poi consentito a noi di andare alla radice della questione e di defenestrare con un taglio netto i detentori del potere e i loro sbirri”.

 

Fidel Castro e il comunismo

Molto si è disputato a proposito del comunismo  e di Fidel Castro e, in particolare, riguardo al momento nel quale egli aderì effettivamente al marxismo.

Ora, contrariamente a quanto da più parti è stato sostenuto, nel 1956, quando Fidel sbarcò a Cuba, la sua posizione ideologico/politica non era chiara ma non aveva mai avuto a che fare con il partito comunista cubano (il cui nome era Partido Socialista Popular) del cui apparato giovanile aveva invece fatto parte il fratello Raul.

D’altronde, il citato PSP, che durante la seconda guerra mondiale aveva addirittura partecipato a uno dei governi presieduti da Fulgencio Batista, riteneva, almeno fino al 1958, che il capo guerrigliero altro non fosse che un putschista velleitario.

Solo quando fu evidente che l’avventura castrista si avviava verso una felice conclusione, e appunto nel 1958, Carlos Rafael Rodriguez – membro del comitato centrale del PSP – si recò all’accampamento di Fidel, in montagna, e propose l’appoggio, accettato, dei comunisti cubani.

Una volta al potere, Castro si spostò sempre più a sinistra, ma fu solamente nell’aprile del 1961, dopo lo sbarco e lo scontro della Baia dei Porci, che annunciò ufficialmente che “Cuba era uno Stato socialista”.

Nel dicembre di quello stesso anno, infine, affermò anche di “essersi personalmente convertito al marxismo/leninismo”.

Così, i comunisti cubani, fino ad allora semplici fiancheggiatori anche se con sempre maggiore voce in capitolo, furono integrati nel ‘Partido Revolucionario’ che finì per chiamarsi ‘Partido Comunista Cubano’.

Peraltro, ancora l’anno dopo, Castro riaffermò in certo qual modo la propria indipendenza esiliando il capo marxista Anibal Escalante che sembrava avviato verso incarichi pubblici di alta responsabilità.

La collocazione temporale susseguente alla Baia dei Porci delle rammentate dichiarazioni di adesione al socialismo da parte del ‘lider maximo’ ha dato motivo a molti di sostenere che un differente atteggiamento delle amministrazioni Eisenhower e Kennedy durante la lotta e subito dopo la presa del potere (L’Avana cade il primo gennaio del 1959) avrebbe potuto impedire l’abbraccio tra Cuba e l’orso sovietico.

Mauro della Porta Raffo