Perché il Giappone non fa i conti con il proprio passato?

In un’illuminante monografia del 1994 il saggista e orientalista olandese Ian Buruma sosteneva che il Giappone, dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, non avesse mai sinceramente “espiato” (quanto meno a livello istituzionale) le proprie colpe per le atrocità commesse nei confronti degli altri popoli dell’Asia durante il periodo di espansione territoriale dell’Impero (1930-1943) (1).

Sono passati 22 anni dalla pubblicazione di quell’importante saggio e la situazione geo-politica, salvo rari momenti di distensione e riavvicinamento diplomatico fra il Giappone e i suoi vicini – Cina e le due Coree in primis –, rimane tesa e complessa.

Il conflitto fra i Paesi dell’Asia Orientale ebbe inizio nel mese di luglio del 1937 e, da quel momento in avanti, le ostilità si fecero sempre più estese fino a divenire parte integrante della Seconda Guerra Mondiale.

Nonostante parte della storiografia nipponica – istigata dall’ala più radicale del PLD (Partito Liberal Democratico), il Partito della destra conservatrice al potere quasi ininterrottamente dal 1952 – voglia affermare il contrario, agli albori delle ostilità in Asia il Giappone fu l’aggressore e la Cina il suo campo di battaglia.

I leader politici giapponesi dell’epoca partivano, infatti, dal presupposto che il popolo nipponico fosse superiore a tutti gli altri – sulla scorta di un’auto dichiarata discendenza divina – e, in virtù di ciò, rivendicavano, per il proprio Paese, l’egemonia economica e territoriale in Estremo Oriente.

Va detto, per giustizia storica, che il genocidio delle popolazioni asiatiche non rientrava tra gli obiettivi bellici iniziali degli alti comandi militari giapponesi. Ciò premesso, non v’è dubbio che le brutalità compiute dai soldati dell’Armata Imperiale in Cina e nel Sud-Est Asiatico, così come quelle perpetrate nei confronti dei prigionieri degli Stati Alleati furono veri e propri, orripilanti, crimini di guerra.

Gli attacchi dei giapponesi contro gli americani a Pearl Harbor e contro gli inglesi in Malesia furono messi in atto senza alcun preavviso e prima che venisse formalmente dichiarato lo stato di guerra.

Tali attacchi furono interpretati – specie agli occhi dell’opinione pubblica americana, “specchio” di un Paese nazionalista tanto quanto, se non più, del Giappone – come un atto di perfidia compiuto a tradimento dagli odiati “Japs”.

Anche non volendo attribuire un’eccessiva importanza storica alla “levata di scudi” della propaganda occidentale dopo i fatti di Pearl Harbor, la strenua lotta combattuta in tutto l’Oceano Pacifico per contrastare l’aggressione giapponese fu, a posteriori, una guerra legittima per svariate ragioni.

In particolar modo in Cina, che più di tutti gli altri Paesi asiatici patì la violenza dell’occupazione nipponica, il comportamento dei soldati giapponesi fu inescusabile. Questi ultimi, infatti, diedero prova di brutalità estrema nel corso del “Massacro di Nanchino”, dove morirono circa 300.000 cinesi civili e inermi, donne e bambini compresi.

Gli spietati raid aerei sulla città di Chongqing comportarono una spaventosa perdita di vite umane e – ironia della Storia – anticiparono di gran lunga la pratica degli americani di ricorrere ai bombardamenti incendiari ai danni di obiettivi civili in Giappone.

Nonostante non vi sia dubbio alcuno sul fatto che il regime comunista in Cina soffochi da sempre qualsivoglia movimento democratico, si faccia beffe dei più fondamentali diritti umani e sia stato responsabile di un numero incalcolabile di morti, tutto questo non giustifica in alcun modo i crimini di guerra compiuti dai soldati dell’Armata Imperiale Giapponese.

Nonostante siano rimasti ampiamente impuniti, i crimini compiuti in Manciuria dall’Unità 731 (2) non potranno mai essere dimenticati, nella coscienza collettiva cinese.

L’operato di tale Unità fu a lungo insabbiato con la connivenza delle Autorità d’occupazione americane che, dopo la resa del Giappone nel 1945, volevano a tutti i costi mettere le mani sui risultati degli esperimenti da essa compiuti in previsione di una possibile, futura guerra totale con l’Unione Sovietica.

Per quanto riguarda i territori occupati dall’Esercito Imperiale nel Sud-Est Asiatico, il governo giapponese rivendicava il fatto che, in realtà, il proprio operato stesse “liberando” le colonie soggiogate dalle potenze europee imperialiste in nome della c.d. “Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale”. Queste promesse si rivelarono solo vuote chiacchiere, e gli abitanti dei territori occupati compresero ben presto che stavano soltanto passando da una forma d’imperialismo a un’altra, la quale si rivelò, peraltro, molto più oppressiva e crudele rispetto a quelle subìte in precedenza.

In Indocina, qualcosa come 60.000 prigionieri di guerra, insieme a circa 180.000 civili, furono costretti ai lavori forzati in condizioni spaventose per il completamento della ferrovia Birmania-Siam (l’attuale Thailandia), passata tristemente alla storia come la “ferrovia della morte”.

Gli stessi americani, fino all’ultimo giorno di guerra nemici giurati dell’Impero, per anni non hanno dimenticato la “Marcia della Morte” di Bataan dell’aprile 1942, durante la quale persero la vita più di 10.000 soldati “a stelle e strisce”.

Né la popolazione delle Filippine potrà mai cancellare dalla propria memoria storica il massacro di civili perpetrato dai giapponesi a Manila nel 1945.

Per molti giapponesi di “oggi”, ma soprattutto di “ieri”, gli eventi brevemente suesposti sono – comprensibilmente – sovrastati dai ricordi di morte e distruzione causate dai bombardamenti incendiari degli americani sulle città del Paese-arcipelago, per non parlare delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.

Questi eventi hanno indotto parte dell’opinione pubblica – sia nipponica, che internazionale – a considerare il Giappone come la più grande vittima della Guerra del Pacifico, piuttosto che come il Paese che, per circa quattordici anni, ha commesso ogni sorta di crimine di guerra.

Il popolo giapponese, in effetti, divenne vittima della guerra e delle atroci sofferenze che questa comportò, ma la responsabilità per tutto ciò che in terra nipponica veniva patito dalla povera gente poggiava esclusivamente sulle spalle dei leader politici dell’epoca.

Già nel mese di gennaio del 1945 l’ex Primo Ministro Konoe Fumimaro aveva ben chiaro che il Giappone non avrebbe mai potuto vincere la guerra, ma quasi tutti i membri del Gabinetto di governo sottovalutarono la fermezza degli americani a voler andare fino in fondo.

La battaglia di Okinawa (combattuta fra i mesi di aprile e luglio del 1945, nonché l’ultima, decisiva sconfitta patita dall’Esercito Imperiale prima dei bombardamenti atomici e la conseguente, inevitabile resa) si rivelò estremamente cruenta e foriera di più di 250.000 vittime fra personale militare e popolazione civile.

Se analoghe battaglie fossero state combattute per la conquista di Kyushu o di Honshu (due delle quattro isole maggiori che compongono l’arcipelago nipponico), il Giappone sarebbe stato verosimilmente ridotto a un cumulo macerie e i morti si sarebbero contati a milioni.

Gli Alleati, terrorizzati da un simile scenario ed essendo persuasi che un’invasione diretta della madrepatria giapponese avrebbe fatto scattare, come rappresaglia, il massacro dei prigionieri di guerra costretti a lavorare nelle miniere sparse nei domini dell’Impero, sperarono che i bombardamenti incendiari avrebbero indotto i leader politici nipponici ad ammettere che il loro azzardo sulla vittoria finale si era rivelato un totale fallimento.

Sfortunatamente per il Giappone – e, soprattutto, per il popolo giapponese – nessuno dei membri dell’entourage politico-militare ebbe il coraggio di ammettere che la guerra si era rivelata un disastro su tutta la linea: come tristemente noto, fu necessario un doppio bombardamento atomico affinché l’Imperatore Hirohito fosse in grado di forzare i vertici militari ad accettare le condizioni di resa dettate dagli Alleati.

Oggi il Giappone, avendo introdotto nel proprio ordinamento giuridico una Costituzione pacifista, che tutela e garantisce i diritti umani e democratici, vanta una società totalmente differente, rispetto a quella che esisteva nel 1941 (anno che, culminato nell’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre, rappresenta, secondo i più autorevoli storici dell’Asia Orientale, l’inizio del periodo più buio della storia giapponese moderna) (3).

Da oltre settant’anni il Giappone contribuisce, e continuerà a contribuire, allo sviluppo della cultura, della scienza e della tecnologia in tutto il mondo, ed è riuscito a instaurare relazioni strette e amichevoli con alcuni di quei Paesi che, meno di un secolo fa, erano suoi nemici giurati.

La speranza per il presente, ma anche – e soprattutto – per il futuro, è che il governo giapponese (e, in particolare, l’attuale Primo Ministro Abe Shinzo), non faccia niente che possa mettere a repentaglio queste, pur fragili, rinnovate relazioni diplomatiche (4).

Piuttosto che insistere con la retorica nazionalista, come non perde occasione di fare, il premier nipponico farebbe cosa saggia se facesse propria la “Dichiarazione Murayama” del 1995, che ha rappresentato il vero punto di svolta delle relazioni postbelliche giapponesi con la maggior parte dei Paesi dell’Asia Orientale (5).

Edoardo Quiriconi

 

 

(1) I. Buruma: “Il prezzo della colpa. Germania e Giappone: il passato che non passa”, Garzanti, Milano, 1994.

 

(2) Unità sotto copertura di ricerca e sviluppo per la guerra chimica e batteriologica dell’Esercito Imperiale giapponese, che mise in atto ogni sorta di esperimento biochimico letale su esseri umani commettendo, nel perseguire i propri scopi “scientifici”, i più svariati e crudeli crimini di guerra.

 

(3) Vedi E. Hotta: “Japan 1941: Countdown to Infamy”, Random House, NYC, 2014.

 

(4) Abe Shinzo è un nazionalista convinto, nipote di Kishi Nobusuke, Ministro dell’Industria durante il periodo bellico. Quest’ultimo, nonostante il coinvolgimento diretto nei massacri compiuti in Asia dall’Esercito Imperiale, per i quali finì sotto processo davanti al Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, riuscì, tramite scambi d’informazioni riservate con gli americani, ad avere salva la vita tanto da diventare Primo Ministro del Giappone dal 1957 al 1960.

 

(5) Murayama Tomiichi, membro del Partito Socialista Giapponese e Primo Ministro dal 1994 al 1996, è entrato nella storia contemporanea del suo Paese per essere stato il primo e l’unico uomo politico dal dopoguerra a esprimere, a nome del Governo da lui presieduto, le più profonde scuse e il più sentito rimorso per i crimini di guerra compiuti dall’Armata Imperiale negli anni 1931-1945.