Che cos’è la virtù

Il termine virtù non aveva originariamente il significato morale che ha assunto in seguito.

Il termine greco ἀρετή (areté) indicava infatti la capacità di svolgere una determinata azione nel modo ottimale o una condizione di eccellenza.

In quest’ultimo significato, la virtù non è una proprietà esclusiva dell’uomo, ma di tutti gli esseri che sappiano realizzare pienamente le loro potenzialità migliori, portandole alla perfezione.

Il termine latino virtus deriva invece da vir («uomo») e si identifica con la fortitudo («forza d’animo»), chiamata a sostenere due ardui compiti: il disprezzo della morte e del dolore (Tusculanae disputationes, II, 18).

Da ciò il sostantivo «virilità»: per cui la virtù romana era l’eccellenza maschile, specialmente nelle attività guerresche.

La virtù diviene oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si pone il problema di «che cosa è» la virtù e lo risolve nel senso della dipendenza dal sapere, per cui essere virtuosi coincide con la conoscenza.

Sviluppando l’impostazione socratica, Platone concepisce la virtù come capacità di attendere a una funzione determinata: così, se la funzione degli occhi è quella di vedere, la possibilità di vedere è la virtù degli occhi.

Egli individua quindi tante virtù quante sono le funzioni fondamentali dell’anima (temperanza, coraggio, prudenza e giustizia) e le pone alla base dell’organismo statale (Repubblica, I, 353 a-d; IV, 440-445).

Aristotele presenta la virtù etica come un «abito», cioè una stabile disposizione o qualità dell’anima che l’uomo non possiede per natura ma che acquisisce operando fattivamente e compiendo gli atti corrispondenti a ciascuna (Etica Nicomachea, 1103 a).

Significative, nell’ambito delle dottrine antiche, le concezioni stoica ed epicurea che attribuiscono centralità alla saggezza, intesa dagli stoici come capacità di contrapporsi alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una prospettiva ascetica, e dagli epicurei come calcolo razionale dei «piaceri» in vista di una condizione di atarassia.

Il cristianesimo ha ripreso il concetto di virtù, adattandone il significato alle proprie specifiche finalità, secondo la massima di Gesù: «Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro nei Cieli.»

La perfezione cristiana risulta però sempre potenziale e mai compiutamente realizzata poiché (e questa è una differenza fondamentale con la prospettiva greca e romana) nessun uomo può dirsi perfetto.

Con il cristianesimo la virtù cessa di essere un ideale di perfezione puramente umana e, in aggiunta alle quattro virtù platoniche – denominate nel mondo cristiano cardinali – entrano in campo le virtù teologali (fede, speranza e carità) che sono soprannaturali, cioè abiti infusi nell’individuo da Dio.

In questa visione le virtù cristiane corrispondono a diversi modelli di santità incarnati negli uomini e nelle donne che durante la loro vita terrena hanno saputo realizzarle al meglio.

Infatti, mentre nei primi secoli del cristianesimo il termine santo designava qualsiasi battezzato in quanto puro e separato da ciò che è impuro e profano, in seguito l’appellativo venne limitato a quei cristiani i quali, dopo aver trascorso una vita di virtù, godono della felicità eterna.

Infine, divenne il titolo particolare di quelli ai quali la Chiesa rende pubblici onori in terra.

La Chiesa cattolica delle origini considerava il martirio la massima espressione della fede e venerava quindi coloro che venivano uccisi a causa del Vangelo.

Soffrire e morire a testimonianza della divinità di Gesù costituiva per un cristiano il più grande titolo di gloria (cf Mt 5,11).

Un po’ ovunque, già dal secolo III, si formarono raccolte di Acta o relazioni stenografate del processo a condanna dei cristiani, redatte da notai, che diedero origine ai più antichi Martirologi.

Essi attestano con quale trasporto i cristiani tributassero ai martiri un culto speciale di dulìa.

Il giorno in cui ricorreva l’anniversario del loro martirio – detto dies natalis cioè nascita al cielo – i fedeli si radunavano attorno alla tomba del martire per la gioiosa celebrazione liturgica della sua memoria e per attingerne il coraggio a seguirne l’esempio.

Con la pace concessa alla Chiesa dall’imperatore Costantino il Grande (313) la venerazione per i martiri si diffuse ovunque.

Le persecuzioni non erano però ancora terminate quando i fedeli cominciarono a venerare i confessori, cioè quei cristiani deferiti all’autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti.

In seguito fu introdotto l’uso, diventato poi universale, di chiamare confessori tutte quelle persone che non avevano dovuto soffrire per la fede, ma ne avevano reso testimonianza con la vita di penitenza e di preghiera.

Presso le loro tombe sorsero sovente santuari che attiravano turbe di pellegrini; le loro reliquie furono venerate e ricercate; l’anniversario della loro morte veniva celebrato liturgicamente con grande solennità.

Dal secolo V al secolo IX parecchi santi non martiri furono accolti nei calendari romani ed ebbero nella Città eterna i loro oratori e le loro chiese.

Questo culto in gran parte fu favorito dai papi di origine non romana, dai monaci emigrati dall’Oriente all’Occidente, dallo scambio di reliquie e dalla diffusione delle Passiones o racconti delle sofferenze subite dai martiri o dai confessori, narrate molto sovente con l’ingenuo gusto del meraviglioso.

Fra i secoli VI e X la dissoluzione dell’Impero romano e l’immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui.

È l’epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini.

In questo periodo nascono nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita e credito di miracoli sono i due punti di partenza per questi culti dell’alto medioevo.

Si stava formando in questi secoli una prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto.

La partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l’intercessione e ne proclamava l’effetto taumaturgico.

In occasione di un sinodo diocesano, alla presenza del vescovo, si leggeva la vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primo nucleo dei futuri processi) e in seguito all’avvenuta approvazione, si procedeva all’esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole (elevatio).

Spesso seguiva un altro passo, la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo accanto a un altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato.

Per più di sei secoli (VI-XII), la canonizzazione vescovile rimase l’unica in uso nella Chiesa latina.

Il trapasso dalla prassi della canonizzazione vescovile alla canonizzazione papale è quasi impercettibile agli inizi.

Questa, in un primo tempo, appare piuttosto casuale, e certamente non era intesa come un atto supremo e valevole per la Chiesa universale.

Ma è chiaro che una canonizzazione decisa dal papa aveva una maggiore autorità; e perciò in un secondo tempo le richieste di autorizzazione papali di culto crebbero sempre più.

Nella maggioranza dei casi, il papa si limitava a dare il suo consenso, mentre fuori, sul luogo, si procedeva alla solita solenne elevazione e inaugurazione del culto.

A poco a poco, però, la canonizzazione papale prese maggiore consistenza e valore canonico; si forma una procedura più rigida, e finalmente essa divenne la canonizzazione esclusiva e unicamente legittima.

La prima canonizzazione papale risale all’anno 993 e riguardò sant’Ulrico, vescovo di Augusta, mentre nel 1171 papa Alessandro II proibì ai vescovi la designazione di santi senza l’autorizzazione della Chiesa romana.

Conseguentemente, da quando il papato si erige a potere politico, nei santi canonizzati si rappresenta il modello della Chiesa che si vuole, come è ugualmente vero che il tipo di Chiesa che non si vuole si esprime nei santi non canonizzati.

Per esempio, quando nel 1146 papa Eugenio III canonizzò l’imperatore Eugenio II di Baviera, in realtà, quali che fossero le virtù di quell’imperatore, ciò che sembra abbastanza chiaro è che Roma volle proporre un modello di governante politico, devoto e sottomesso alla santa Sede, che corrispondeva a ciò che il papa si attendeva dal potere imperiale.

Per la stessa ragione, la canonizzazione di Edoardo il Confessore da parte di Alessandro III, nel 1161, proponeva un modello di sovrano conforme alle aspirazioni di un papa autoritario, che fece tutto il possibile per affermare la preminenza del potere pontificio sul potere imperiale.

E quando questo stesso papa canonizzò Thomas Beckett nel 1173, a soli tre anni dalla sua morte, tutti in Inghilterra capirono che il papa elevava alla dignità degli altari un vescovo ribelle all’autorità del re Enrico II.

Il caso più chiaro della risposta del papato, mediante l’esaltazione alla gloria degli altari, di fronte ai pericoli che Roma vedeva come minacce al suo potere, fu però la canonizzazione di Gregorio VII.

Questo papa morì nel 1085, ma fu canonizzato nel 1728, ovvero sei secoli e mezzo dopo la morte.

Gregorio VII è l’autore del Dictatus Papae, il documento del 1075 che dette una piega completamente nuova all’esercizio della potestà papale nella Chiesa.

E per concludere con due esempi eclatanti, l’imperatore Carlo Magno, uomo di immenso potere e dalla condotta non integerrima, venne dichiarato beato nel 1165 e Francesco d’Assisi fu canonizzato in tempi rapidissimi nel 1228, a neppure due anni dalla sua morte.

 

Ma abbandonando la valenza “politica” della canonizzazione per approdare a miglior acque, tra i santi e i beati che Dante ha l’opportunità di incontrare nel suo viaggio in paradiso, tre personaggi paiono particolarmente significativi per esprimere altrettante diverse concezioni della santità medioevale.

Nel canto III il poeta si rivolge all’anima che gli sembra più desiderosa di parlare e le chiede di rivelare il suo nome e la condizione degli altri beati collocati nel I cielo, quello della Luna.

La beata dichiara di essere Piccarda Donati e racconta di essere stata vergine sorella.

Giovinetta pia e religiosissima, entrò nel convento di S. Chiara a Firenze per farsi monaca.

Il fratello Corso però, per motivi di convenienza politica la volle dare in sposa a Rossellino della Tosa, violento esponente dei Guelfi Neri; per questo venne a Firenze con un gruppo di facinorosi, la rapì dal monastero e la costrinse alle nozze.

Dante le chiede se lei e gli altri beati di questa schiera desiderino un più alto grado di beatitudine, ossia una maggiore vicinanza a Dio in uno dei cieli più prossimi all’empireo, ma Piccarda spiega sorridendo che “e ‘n la sua volontade è nostra pace” (Paradiso, III, 85): la loro volontà è conforme a quella di Dio, per cui esse desiderano solo ciò che a Dio piace e non chiedono altro.

Santità quindi per Piccarda significa fare la volontà di Dio.

Poi, nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti, Tommaso d’Aquino, grande esponente dell’ordine domenicano, spiega al pellegrino che la Provvidenza, che governa il mondo con l’infinita saggezza di Dio, al fine di rendere più salda e sicura la Chiesa, dispose la nascita di due principi che la guidassero e le stessero al fianco.

Di questi, uno (san Francesco) fu pieno di ardore mistico come i Serafini, l’altro (san Domenico) fu talmente sapiente da risplendere della luce dei Cherubini.

Tommaso parlerà solo di Francesco, poiché le opere dei due santi ebbero un unico fine e quindi, lodando qualunque di essi, si lodano entrambi.

Il teologo domenicano, narrando la biografia di Francesco (Paradiso XI, 43-117), ricorda che egli volle sposare una donna (la Povertà) alla quale nessuno desidera unirsi, come alla morte, e che, dopo la crocifissione di Cristo, suo primo marito, era rimasta per più di millecento anni sola e disprezzata da tutti.

Francesco si unì a lei in mistiche nozze davanti al tribunale episcopale e al padre, spogliandosi di tutti i suoi beni (Paradiso XI, 55-75).

In seguito, dopo aver menzionato i primi seguaci, l’approvazione della Regola di vita e il viaggio in Terrasanta, Tommaso racconta che Francesco tornò in Italia e si ritirò sul monte della Verna, dove ricevette l’ultimo e definitivo sigillo alla Regola (le stimmate), che portò per due anni fino alla morte (Paradiso XI, 106-108).

Questi due eventi biografici, ossia il matrimonio con Povertà (la vedova di Gesù), e l’impressione delle stimmate, assimilano la vita di Francesco a quella di Cristo, indicando come via per la santità l’imitazione della vita del Signore (la sequela Christi).

Infine, nel cielo di Saturno, Dante incontra San Benedetto da Norcia, il quale gli spiega che tutte le anime di quella zona furono in vita spiriti contemplanti e fra essi vi sono Macario, Romualdo e i monaci benedettini che sono stati fedeli al loro monastero durante la vita terrena (“qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo”, Paradiso XXII, 50-51).

La vita monastica è dunque la terza opzione che la Commedia ci presenta per raggiungere la santità.

Sarà poi l’Umanesimo, mettendo l’accento sulla dignità dell’uomo, a riportare in auge il tema antico della virtù mondana.

Nelle pagine di Machiavelli la virtù, sganciata da un significato morale, consiste nella capacità dell’uomo di non subire passivamente i casi della «fortuna», ma di dominarli.

Essa rappresenta quindi la forza dell’individuo di tradurre in atto il proprio volere, indipendentemente dalla valenza morale e religiosa degli scopi che egli si propone.

Peraltro, con Machiavelli, si assiste a un significativo slittamento di significato del concetto di virtù, che diviene la connotazione tipica del principe ideale, e, più in generale, dell’uomo che prende in mano il proprio destino e che, audacemente, diviene faber fortunae suae.

La virtù di Machiavelli, infatti, non si contrappone al vizio, ma alla fortuna, ossia all’elemento cieco e imprevedibile presente nelle vicende umane.

Pertanto, la virtù è un insieme di qualità politiche (prudenza, fermezza, intuizione, simulazione, coraggio) esclusivamente laiche e immanenti: nulla a che vedere con la dimensione etica, e meno ancora con la sfera del soprannaturale.

 

Secondo Kant, la virtù si realizza quando l’intenzione morale lotta coraggiosamente contro le inclinazioni e gli impulsi (Critica della ragion pratica, 1788, I, I, III).

Nel quadro di una concezione della libertà morale come autonomia (essere liberi significa obbedire a sé stessi, cioè trarre la legge morale dalla propria coscienza e non dal mondo esterno), Kant fa riferimento alla virtù come alla forza morale necessaria al compimento del proprio dovere.

È dunque solo nell’obbedienza al dovere per il dovere, senza ulteriori fini utilitaristici o egoistici, e facendo riferimento esclusivamente all’intenzione, sempre pura e indifferente agli effettivi esiti pratici dell’azione, che si realizza il destino morale dell’uomo.

Con Kant, quindi, avviene una svolta: il problema morale non consiste tanto nella classificazione delle azioni (considerate virtuose o viziose sulla base di un certo modello ideale), bensì è fondamentale il giudizio sull’intenzione in coscienza, cioè sulla volontà buona di chi agisce.

 

Non si può a questo punto evitare di domandarci se la modernità abbia elaborato un proprio concetto di virtù e quale, eventualmente, esso sia; ed anche, più in generale, se si possa farne a meno.

La figura dell’individuo virtuoso è di fatto scomparsa nella letteratura e nel teatro; quanto al cinema, essa non vi compare se non come rievocazione di tempi lontani.

Non c’è più posto, nel mondo moderno, per un «pius Aeneas», per il semplice fatto che non ce n’è più bisogno; così come non c’è più bisogno di uno shakesperiano Prospero, che sappia perdonare i suoi nemici, o di un manzoniano Padre Cristoforo che sappia prodigarsi per amore del prossimo.

La perdita di incisività del termine virtù nella cultura contemporanea è da attribuire a diverse cause: il pluralismo filosofico che presenta diverse concezioni dell’essere umano e un relativismo sulla gerarchia delle virtù; l’esaltazione della soggettività che rifiuta ogni struttura che coarta la libertà; una riflessione sull’ethos concentrata sull’analisi dell’atto morale e della responsabilità soggettiva; l’influsso della psicoanalisi freudiana e la scoperta del mondo inconscio degli istinti che reclama il diritto a espandersi al di là delle virtù per non cadere in angusti schemi precettistici.

Tuttavia permangono alcuni nodi problematici: se la virtù sia una disposizione per compiere il proprio dovere o debba sostenere le scelte eroiche della persona; se sia una qualità che migliora la convivenza sociale o sia da considerare come un tratto significativo del carattere di ogni persona; se consista nelle singole scelte di una vita buona o le trascenda assurgendo invece al loro significato globale e teleologico nella prospettiva della verità, della giustizia e del coraggio.

Di fatto, di fronte alla vita che ci impone di risolvere, spesso con decisioni sicure e rapide, problemi urgenti che vanno dalla vita nascente all’aiuto efficace da dare al malato grave, dal rispetto della privacy all’obbligo di prevenire una epidemia denunciandone la malattia, ci si trova spesso a dover impegnare ogni aspetto della moralità e di esprimere i valori in cui si crede.

In generale, si può comunque sostenere che, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, “la virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene” (parte terza, sezione prima, I, 7, 1803) che impone di non ignorare le esigenze altrui e di dare sempre, per ciò che ci è consentito, il meglio di sé.

Chiara Merlotti