Non so perché, ma è ‘Blow-Up’.
Se ci fosse un perché, il film della mia vita sarebbe un altro.
Risultato, continuo a non capirci niente dopo quarantanove anni da quel giorno.
Ero finito nel cinema d’essai seguendo la moda del giovanotto d’allora più o meno impegnato: Antonioni, basta la parola.
Pensavo di farmi stordire da quella noia che solo lui sapeva trasmettere.
E invece – e non può essere soltanto per il fascino di Vanessa Redgrave – mi è rimasto appiccicato al cervello, quel film.
Mi perseguita: me la sogno di notte e di giorno quella scena della partita a tennis senza palla; quella fotografia nel parco che quando viene scattata è inequivocabilmente la testimonianza di un delitto, ma quando viene stampata non c’è nient’altro che l’indecifrabilità del dubbio; quel ‘nudo frontale’ di Vanessa cui al cinema, allora, non eravamo tanto abituati; quelle due modelline-zoccolette che fanno perdere al fotografo-io-narrante in cerca di verità l’attimo fuggente per cogliere il senso della vicenda in cui è coinvolto.
Vogliamo proprio arrampicarci sugli specchi?
‘Blow-Up’ non è un film: è una poesia spalmata su gelatina e celluloide; prende la forma cinematografica ma mantiene la sostanza lirica: ti tocca il cuore, il sentimento, la memoria, l’ombelico.
E se tenti di scoprire ‘perché’ la vita ha un senso anziché pensare ‘se’ la vita abbia un senso ti rifai venire in mente quel film e anziché diventare pazzo dici a te stesso come dici ai bambini che hanno paura di fronte a una scena violenta: ma guarda che tutto questo è soltanto un film.
Francesco Cevasco