Shintoismo e Buddismo. Ovvero dell’essere religiosi in quel del Sol Levante.

I giapponesi non sono religiosi”?

Questo è uno dei più frequenti interrogativi che il viaggiatore proveniente da Ponente si pone, dopo avere visitato con “occhio occidentale” e (anche inconsapevolmente) cristiano, l’arcipelago giapponese.

L’homo occidentalis, infatti, abituato – anche quando non credente – alle liturgie rigorosamente scandite proprie delle varie Chiese, nonché alla pervasività del fenomeno religioso in tutti gli aspetti della vita quotidiana (dalla politica, alla cultura, al costume sociale e financo sessuale dei singoli individui), rimane sovente interdetto, di fronte all’apparente assenza di importanza che il mondo “endocosmico” (per citare il Maestro Fosco Maraini) riveste nella vita dell’homus japonicus medio.

In effetti il Giappone è un Paese profondamente, intimamente laico: la Costituzione di stampo pacifista – entrata in vigore nel 1947 durante l’occupazione statunitense dell’arcipelago a seguito della disfatta dell’Esercito Imperiale, culminata con i bombardamenti nucleari su Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto del 1945 – garantisce, quale principio generale, la libertà di culto per ciascun individuo, ma non prevede alcun riferimento normativo circa una “religione di Stato” ufficiale.

Su quest’ultimo punto, anzi, è stata operata, dai membri dello Scap (Supreme Commander of the Allied Powers) – ovvero, gli Stati Uniti d’America – la più ferrea separazione fra Stato e “Chiesa”, al fine di scongiurare, tramite la “cristallizzazione” nella Carta Fondamentale, il ritorno dello Shintoismo di Stato, fenomeno quasi esclusivamente politico, e ben poco religioso, che, con abile e opprimente propaganda, le autorità governative del Giappone Showa (1926-1989) avevano utilizzato per fomentare il nazionalismo interno e giustificare, sull’altare di una presunta e auto dichiarata superiorità giapponese rispetto agli altri popoli dell’Asia (il Giappone era stato il primo e l’unico Paese asiatico della Storia a infliggere una sconfitta militare a un “impero bianco”, con la vittoria della guerra navale contro la Russia nel 1904-05) l’ideologia del “Panasiatismo”, in virtù della quale l’Impero nipponico si dichiarò intenzionato a liberare tutti i popoli dell’Asia dal giogo coloniale delle potenze occidentali, salvo poi colonizzarli a sua volta.

Il resto della storia è abbastanza noto: milioni di vittime in tutta l’Asia, repressioni (per “dimensioni” e clamore ha fatto storia il massacro di Nanchino in Cina, quando, sotto i colpi dell’Armata Imperiale del Manchukuo furono uccisi senza pietà tra i 250.000 e i 300.000 cinesi, per lo più inermi), resistenza armata dei popoli occupati e relazioni diplomatiche con i Paesi vicini abbastanza tese, quando non pessime (Cina e le due Coree in primis).

Ha quindi suscitato – e continua a suscitare – sorpresa, negli osservatori più occasionali e “casuali”, il fatto che, in meno di settant’anni, la massa, il popolo giapponesi, abbiano così radicalmente cambiato atteggiamento verso il fenomeno religioso e tutto ciò vi gravita attorno, senza mai dimenticare, peraltro, che il fervore popolare verso la “religione” nei quindici anni che hanno portato alla guerra nel Pacifico e alla conseguente rovina (1930-1945) era il frutto di movimenti, di politiche e di culture creati ad hoc dall’alto, in un regime assolutamente antidemocratico.

In prima battuta è necessario premettere che, pur non vivendo il fenomeno religioso allo stesso modo dell’uomo occidentale (e, soprattutto, in modo completamente differente rispetto a tutti gli aderenti a una delle tre grandi religioni monoteiste), non è propriamente corretto sostenere che i giapponesi siano atei tout court.

Di certo vi è che il modo in cui, nel corso di circa 1500 anni, gli abitanti dell’arcipelago hanno recepito e interiorizzato il fenomeno religioso, è assolutamente peculiare non solo se rapportato all’Occidente, ma anche al resto dell’Asia.

Cercherò, in breve, di aiutare a capire il perché.

Bisogna innanzitutto dire che le due religioni di gran lunga più diffuse e praticate in Giappone sono lo shintoismo e il buddhismo, con un numero di fedeli, rispettivamente, di circa 106 e 95 milioni.

Spesso, peraltro, le due fedi non si “elidono” a vicenda ma, al contrario, la grande maggioranza dei giapponesi è shintoista e buddhista allo stesso tempo, il che rappresenta quasi un unicum, in un mondo che va sempre più “polarizzandosi” come quello odierno, nel quale il fanatismo e l’intolleranza religiosa dilagano, portandosi dietro decine di piccoli conflitti, più o meno estesi sul territorio, nonché centinaia di migliaia di vittime.

Questa millenaria e pacifica dicotomia/convivenza fra i due culti si deve al fatto che lo shintoismo (dalla parola Shinto, ovvero “la via degli dei” o “la via del divino”), religione autoctona e originaria dell’arcipelago (tanto da non essere praticata in nessun altro paese del mondo), non prevede precetti morali ferrei e precisi destinati ai fedeli, come invece accade con la maggior parte delle altre religioni.

Lo shintoismo non prevede comandi, né regole che prescrivono che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato; così come non predica un’esclusività di culto e di credo, fatto, questo, che ha consentito ad altre forme religiose (il buddhismo cui si è accennato supra), di trovare spazio e fedeli in terra giapponese.

Sebbene la maggior parte dei giapponesi abbracci entrambi i culti citati –sempre in modo blando e mai prendendo le (poche) liturgie alla lettera –, esistono sostanziali e categoriche differenze, fra le due fedi.

La prima, e probabilmente più saliente, è che lo scintoismo non si preoccupa di questioni metafisiche, “dell’aldilà” e dei problemi della vita extra terrena, laddove, nel buddhismo, questo aspetto costituisce una delle componenti essenziali di tutto l’impianto teologico, tanto che le azioni e i comportamenti tenuti in vite precedenti andranno a condizionare l’esistenza, o le esistenze, future: questo in quanto i seguaci del Verbo di Siddharta credono nella reincarnazione degli esseri viventi in altri, differenti esseri, fin quando, raggiunto lo stadio finale dell’illuminazione, la catena delle rinascite verrà interrotta.

Lo shintoismo è una religione antichissima, risalente, probabilmente, ad epoche quasi preistoriche, priva sia di qualsivoglia dottrina etica che di scritture sacre.

Si basa su un sistema di fede animista che crede negli spiriti della natura, i Kami, e si è verosimilmente sviluppato quando il Giappone era ancora una terra abitata da contadini e coltivatori semi-nomadi.

Con tutta evidenza, la “presa” sulla popolazione, soprattutto rurale, è stata molto forte, e detto culto è sopravvissuto fino ad oggi pressoché nello stesso modo in cui veniva praticato circa tremila anni fa.

Uno degli aspetti più squisitamente autoctoni e caratteristici dello shintoismo è la celebrazione, ancora ai giorni nostri, di numerose festività (in giapponese “matsuri”), molte delle quali hanno origine antica e agreste, e che rimandano alle antiche feste allegoriche, nelle quali si pregano gli spiriti della natura (i veri “dei” dello Shinto, i sopracitati Kami) di fornire raccolti abbondanti e prosperità per il villaggio, per la famiglia, per l’impresa, per il parto etc.

In tutto il Giappone se ne celebrano diverse decine, e ogni regione dello Stato-arcipelago, addirittura ogni singola città, vanta un proprio, specifico “matsuri”.

Anche la purezza e la pulizia (sia fisica che interiore) sono sempre stati elementi essenziali nello shintoismo, e ciò è chiaramente percepibile nei santuari di culto, detti “Jinja”: dopo essere passati attraverso uno o più portali (c.d. “Torii “, posti all’entrata dei santuari stessi per rendere edotto il visitatore che sta entrando in una zona “sacra”), i devoti devono procedere a un rituale del lavaggio delle mani e della bocca sciacquandosi con dell’acqua e utilizzando, a tal fine, un’apposita bacinella messa a disposizione dal “clero”, prima di pronunciare le loro preghiere nella sala principale del santuario dove, per chi crede, riposa lo spirito, silente ma vigile, del Kami cui è intitolato il santuario.

In ogni luogo di culto shintoista vi sono delle bancarelle presso le quali è possibile acquistare talismani e amuleti vari in grado, secondo le credenze religiose, di garantire una buona salute, piuttosto che fortuna sul lavoro, negli affari, in amore etc.

Inoltre, il visitatore di un luogo di culto Shinto noterà sempre tante piccole targhette di legno – dette ema – appese a un albero, sulle quali i fedeli scrivono, con inchiostro e pennello, i propri desideri e le proprie aspirazioni da rivolgere ai Kami, nonché delle sottili, bianche strisce di carta che predicono la sorte (dette “omikuji”) arrotolate, a loro volta, sui rami degli alberi.

Il buddhismo, invece, arrivò in Giappone attorno al sesto secolo d.C. attraverso la Corea e, quando iniziò a diffondersi nell’arcipelago, era una religione già vecchia di circa mille anni.

Il suo culto ebbe origine in India, per poi “espandersi” progressivamente verso est, passando per la Cina, la penisola coreana e approdando, infine, tramite le missioni commerciali e culturali, in Giappone.

Avendo già una storia tanto lunga alle spalle, ed essendo passata, letteralmente, attraverso culture tanto diverse e distanti (sia geograficamente, che culturalmente), l’interpretazione del buddhismo arrivata sul suolo nipponico è molto differente da quella che, mille anni addietro, aveva iniziato il proprio “viaggio” dall’India.

Il buddhismo, in Giappone, è sempre stato considerato il culto al quale affidare la salvezza dell’anima per il “dopo vita terrena” ed eventuali, successive reincarnazioni (differenziandosi, soprattutto per questo aspetto, dallo shintoismo, che è interpretato, dai giapponesi, quale la religione del quotidiano, cui si fa affidamento per le speranze e i desideri legati alla vita terrena).

Importantissima, nel pantheon del buddhismo giapponese, è la figura dei c.d. bodhisattva (parola di origine sanscrita), ovvero coloro che portano il dono della salvezza e dell’illuminazione agli altri esseri viventi.

Le due figure di bodhisattva più venerate nella terra del Sol Levante sono quella di Kannon (portatrice di misericordia e protettrice delle donne) e di Jizo (protettore dei bambini nati, nascituri o prematuramente deceduti).

A differenza dei santuari shintoisti, dotati di un’architettura tendenzialmente rigorosa e geometrica, nonché votati al minimalismo e alla sobrietà, tanto nelle linee quanto nei colori, i templi buddisti (“Tera” in giapponese) sono invece spesso ricchi di ornamenti e colori per via dell’influenza che le culture cinese e tibetana hanno esercitato, sul culto di Siddharta, nel suo avanzare verso oriente; inoltre essi vedono sempre sorgere, al loro interno, un’immancabile pagoda: un tempio buddhista senza pagoda, semplicemente non è un tempio buddhista.

La convivenza, la commistione di due culti religiosi tanto differenti (sia come origini che come rituali), esistenti in Giappone, rappresenta uno dei numerosi elementi di complessità e di contraddizioni presenti all’interno della società di questo piccolo, grande Paese.

Quelle stesse complessità e contraddizioni che tuttavia contribuiscono, a parere di chi scrive e non solo, a rendere questa civiltà così magneticamente attraente.

Edoardo Quiriconi