La rivoluzione americana
Il rapporto tra gli Stati Uniti e la tradizione anarchica

2 ° Parte

Le interpretazioni dell’esperimento

I sette articoli del progetto di Costituzione del settembre 1787 concedono alle istituzioni centrali poteri legislativi (distribuendoli proceduralmente tra Camera e Senato) e poteri esecutivi (al presidente) per quanto attiene, tra l’altro, all’imposizione di tasse, al conio della moneta, all’istituzione del servizio postale, al controllo del commercio con l’estero e tra gli Stati, al mantenimento di esercito e marina permanenti, alla direzione delle milizie statali, accordando a tali istituzioni anche la facoltà di “fare tutte le leggi che saranno necessarie e proprie per eseguire i suddetti poteri”; stabiliscono inoltre le modalità di elezione al Congresso; prevedono un sistema decentrato di corti federali e attribuiscono a una Corte Suprema la facoltà di ultimo appello nei casi che riguardano gli Stati; riservano al Congresso il diritto di alterare la Costituzione stessa.

Le (poche) garanzie agli individui sono formulate in termini ambigui: l’Habeas Corpus è concesso (ma non in caso di ribellione o invasione); sono proibite leggi promulgate ex post facto; sono vietate le imposte dirette, se non in proporzione al censo.

Il progetto scatena un dibattito di ampio respiro.

Già il 24 settembre l’avvocato irlandese di tendenza democratica David Redick (poi convertito al federalismo), che nell’ottobre del 1994 tenterà, in qualità di portavoce dei più moderati Whiskey Rebels, di convincere Washington a non impegnare battaglia, lamenta la ‘perdita della libertà americana’:

“Perché non è garantita la libertà di stampa?

Perché il Congresso ha il potere di alterare […] la modalità di scegliere i rappresentanti?

Perché hanno il potere di imporre imposte dirette?

Perché hanno il potere di tenere eserciti in tempo di pace?

Perché hanno il potere di fare leggi in diretta contraddizione con la forma di governo stabilita nei diversi Stati? […]

Perché il processo con giuria è distrutto nella cause civili di fronte al Congresso?»

Tra gli oppositori – noti già all’epoca come ‘antifederalisti’ – troviamo democratici preoccupati per l’impianto elitario del governo previsto dalla Costituzione, sostenitori delle autonomie degli Stati che paventano la sottrazione ai poteri locali di buona parte delle loro prerogative politiche, economiche e giudiziarie (comprese, per i sudisti, quelle che sanzionano la schiavitù), libertari che guardano con cruccio alla scarsa protezione accordata a ciò che oggi definiremmo ‘diritti civili’ (libertà di stampa, libertà religiosa, processo per giuria) e al carattere autoritario di alcune soluzioni (la Corte Suprema, l’esercito permanente).

Nel coacervo di argomentazioni avanzato dagli ‘antifederalisti’ – che in molti casi si limitano a dubitare degli strumenti dei federalisti, ma non obiettano sui fini che tali strumenti dovrebbero ottenere – fa così capolino, a volte, una logica che non si limita a insistere sulla necessità di limitare il potere centrale (o quello degli Stati), ma che mette in discussione la natura stessa di tale potere, rivendicando – con l’apologia dei diritti degli Stati in chiave di difesa del diritto all’autogoverno delle diverse comunità, del processo per giuria e della libertà di stampa, o con la richiesta di un Bill of Rights che salvaguardi le libertà personali – quell’ideale di governo locale e di autonomia politica, di orientamento libertario, che Goodman ha felicemente quanto retoricamente definito “età dell’oro storica dell’anarchia”.

Non a caso Robert Whitehill, uno degli autori della Costituzione democratica della Pennsylvania del 1776, residente nella contea del Cumberland (non proprio di frontiera ma quasi), dichiara nel corso della discussione della ratifica della Costituzione in sede statale che “il difetto è nel sistema stesso”, poiché già il primo articolo (che regola il potere legislativo federale), con “una concessione di potere tanto superlativa in natura e illimitata in estensione” da produrre “il più stravagante grado di dominio arbitrario”, è più che sufficiente “per annichilire le costituzioni dei diversi Stati e di conseguenza le libertà del popolo”.

In una serie di interventi estremamente critici nei confronti della nuova soluzione, il democratico ‘Catone’ del New York spiega poi che “la libertà, l’eguaglianza e l’indipendenza” di cui godono gli americani saranno messi a rischio dalla nuova “repubblica consolidata”, che potrà mantenere l’ordine solo facendo ricorso alla forza, cioè a un “principio che impedirebbe” sì insurrezioni e sommosse ma “finirebbe con il distruggere le libertà” degli americani stessi.

Le modalità ‘ingiuste’ delle elezioni dei rappresentanti “condurranno allo stabilimento di un’aristocrazia”: “Ci si stacca dal sicuro principio democratico delle elezioni annuali”, «”l numero dei rappresentanti è troppo basso”, non c’è criterio proporzionale per il Senato, e così via.

Secondo Catone il vero “principio di unione” di una comunità è strettamente locale, è dato dalla “conoscenza [diretta], dagli usi e dalle fortune”: si può forse presumere che persone di altri luoghi possano “dirigere le vostre vite, le vostre libertà e le vostre proprietà con la stessa cura e lo stesso attaccamento” dei vostri compaesani?

Tra gli anti-federalisti troviamo spesso criticato il criterio della rappresentanza nazionale in nome di una rappresentanza locale dalle sfumature ‘dirette’, ritenuta più consona alle esigenze dell’autogoverno: i ‘costituzionalisti’ democratici della Pennsylvania notano che solo un “dispotismo dalla mano d’acciaio” potrà “connettere e governare questi Stati Uniti in un solo governo”, costringendo “il popolo americano” a “rassegnare ogni privilegio da uomini liberi, sottomettendosi al dominio di un governo assoluto”; l’assemblea del Rhode Island decide di “sottoporre [la Costituzione] agli uomini liberi delle molte città di questo Stato, nel corso di raduni comunali, registrando il loro sì e no”, suscitando le ire di chi teme le iniziative di quegli “uomini scaltri e volti a complottare la cui unica prospettiva positiva sta nella condizione dell’anarchia”; anche il patrizio Richard Henry Lee ritiene che, date le modalità di elezione della Camera dei rappresentanti previste dalla Costituzione e la distinzione di fatto tra l’”aristocrazia naturale” del Paese “e le classi medie e basse” che ne costituiscono la “democrazia”, “il ramo federale rappresentativo avrà ben poca democrazia al suo interno”.

D’altro canto, tra gli antifederalisti appartenenti alle classi dirigenti – come appunto Lee – accanto alla difesa dei diritti degli Stati e alla critica del criterio di rappresentanza adottato nel documento è preminente la preoccupazione per le libertà personali.

Anche in questo caso ciò si iscrive in un clima filosofico e in un’esperienza storico-intellettuale segnati dal sospetto verso l’autorità, in particolare verso l’autorità che si incarna nel potere dello Stato: la richiesta di una carta dei diritti è infatti intesa, nel solco della tradizione britannica, come la descrizione degli ambiti di azione del cittadino sottratti al controllo delle istituzioni pubbliche. In una lettera del maggio 1788 Lee spiega infatti che, dato il potere “grande ed esteso nelle mani dei governanti”, occorre prendere grande precauzioni per difendere la libertà di stampa, il processo per giuria e l’indipendenza del giudiziario: “Devono essere assicurati da una carta dei diritti per regolare la discrezione dei governanti in modo legate, tenendo il progresso dell’ambizione e dell’avidità nei giusti limiti”.

Nell’elenco dei difetti della Costituzione l’influente virginiano antischiavista George Mason mette al primo posto la mancanza di una carta dei diritti, precisando poi che “non vi è dichiarazione di alcun tipo per preservare la libertà di stampa e il processo per giuria nella cause civili, né contro il pericolo degli eserciti permanenti in tempo di pace”.

Secondo ‘Bruto’ del New York, un altro avversario feroce della Costituzione, essa “è radicalmente deficiente su un principio fondamentale, che dovrebbe trovarsi in ogni governo libero: cioè una carta dei diritti”.

Nelle critiche di altri personaggi influenti (a nord, al centro, al sud) – da Elbridge Gerry a Patrick Henry, da Edmund Randolph a Luther Martin – ritroviamo lo stesso elemento.

I federalisti fedeli alla visione hamiltoniana, decisamente contrari al provvedimento (ovviamente restrittivo rispetto al loro progetto di costruzione di un governo dai poteri ampi), si arrendono di fronte alla presa di posizione di Madison, che decide di concedere la sospirata carta, probabilmente colpito dagli argomenti di due suoi corrispondenti, John Leland e Thomas Jefferson.

Il predicatore battista Leland, noto per il suo sostegno all’idea della totale separazione tra Stato e Chiesa, insiste sulla necessità di un Bill of Rights, poiché senza di esso i “diritti naturali e domestici diventano alienabili e ciò provoca immediatamente la tirannia”; inoltre, argomento cui Madison, altro campione del totale disestablishment della religione di stato, è certo sensibile, non vi sono garanzie sufficienti, né “difese costituzionali” per la libertà religiosa: “Se una maggioranza del Congresso con il favore del presidente favorisce un sistema piuttosto che l’altro, potrebbero obbligare tutti a pagare per il sostegno a tale sistema quanto pare loro”.

Secondo Jefferson, invece, la Costituzione ha due principali difetti: non prevedere una “rotazione della cariche, soprattutto nel caso del presidente”, e “l’omissione di una carta dei diritti che provveda chiaramente e senza sofismi alla libertà di religione, alla libertà di stampa, alla protezione contro gli eserciti permanenti, alle restrizioni contro i monopoli, all’eterna e persistente forza delle leggi sull’habeas corpus, al processo per giuria”.

La richiesta jeffersoniana di una protezione costituzionale contro i monopoli – richiesta più unica che rara – ci porta all’altro estremo del fronte antifederalista, al mondo dei ‘corpi autonomi’ di Tocqueville, alle comunità locali, ai coloni, al separatismo di frontiera.

Nel dibattito sulla Costituzione la loro voce è forse poco udibile ma presente.

Il sarcastico ‘John Humble’ della Pennsylvania (pseudonimo significativo) si qualifica subito come low born, loda gli high born che, radunati a Filadelfia per trovare rimedio alla “terrificante malattia” degli ultimi cinque o sei anni (cioè gli Articoli di confederazione), hanno concluso che il rimedio è “Re, Lord e Comuni, o, in lingua americana, presidente, Senato e rappresentanti”, e segnala che sull’argomento i low born “hanno l’orrida audacia di pensare per se stessi”, osando dubitare della “perfezione di questa evangelica Costituzione”.

In quanto alla questione dell’esercito permanente e del suo compito principale – riscuotere le tasse – Humble dichiara che “se uno di questi soldati, impiegato nella riscossione delle tasse, dovesse tagliare un braccio con la spada a uno dei nostri compagni schiavi, ci considereremmo fortunati se gli lasciasse l’altro”.

Noi “lasceremo, da qui in avanti e per sempre”, continua sempre più acido, “ogni potere, autorità e dominio sulle nostre persone e le nostre proprietà nelle mani dei well born, designati al governo dalla provvidenza”.

Amos Singletary, futuro senatore per il Massachusetts, parte anch’egli dal problema delle imposte, prendendosela con “gli avvocati, gli uomini di cultura, gli uomini di denaro, che parlano così bene e chiosano con tanta eleganza” e che “si aspettano di essere i padroni di questa Costituzione, di prendersi in mano tutto il potere e tutto il denaro, e allora ci ingoieranno, noi little folk, come il grande Leviatano”.

Il matematico Benjamin Workman, appena giunto dall’Irlanda e stabilitosi a Filadelfia, ci porta al centro delle doglianze radicali, indignandosi perché nel corso delle discussione sulla ratifica in sede statale la petizione dalla contea di Cumberland presentata da Robert Whitehill viene dichiarata ‘impropria’ e da non tenere in considerazione: “Dov’è l’uomo libero d’America che può docilmente sopportare che tale insulto alla sua dignità passi impunito […]?

È forse improprio che gli uomini liberi presentino petizioni in difesa dei loro diritti?

Se così fosse, direi che l’improprietà sta solo nel fatto che non li pretendono”.

Nell’America del periodo la petizione è una delle modalità in cui i gruppi subalterni fanno sentire la loro voce, è anzi, per loro, la modalità politica per eccellenza, quella che, in un mondo contrassegnato da complessi codici di interazione e di riconoscimento reciproco tra ‘elité’ e ‘popolo’, segnala maggiormente la loro autonomia.

Nelle zone agricole, e soprattutto in quelle di frontiera acquisite con la Rivoluzione, dove spesso le terre sono in affitto e il proprietario è un ricco assenteista degli Stati costieri, il peso fiscale, la scarsità di cartamoneta, la mancanza di reale rappresentanza politica in sede statale (per questioni di censo ma ancor più perché i distretti centrali sono chiaramente favoriti in termini di peso elettorale), la distanza dai tribunali e dagli uffici amministrativi centrali e soprattutto la dura politica degli espropri per debiti si combinano per produrre da un lato la diffusione di un diffuso antagonismo e dall’altro la tentazione separatistica (in questo periodo Maine e Vermont, zone di ‘frontiera’ del Massachusetts e del New Hampshire, rivendicano la loro autonomia avviandosi a divenire Stati per proprio conto).

È questa la chiave in cui va interpretata la più celebre ‘ribellione’ del periodo, quella dei fabbricanti del whiskey della frontiera, in particolare della Pennsylvania dell’Ovest.

L’imposizione della tassa sul whiskey disposta nel 1791 rientra ovviamente nel progetto federalista, che prevede un rafforzamento del governo federale sia attraverso un aumento del gettito fiscale sia attraverso lo schiacciamento delle tendenze centrifughe: non a caso, al centro della vicenda si trova Alexander Hamilton, proponente sin dal 1790 dell’accisa sul liquore e di altre tasse utili per ripagare il debito pubblico e pronto a interpretare in modo molto largo gli articoli della Costituzione che riservano al governo la facoltà di indirizzare la politica fiscale.

Alla frontiera gli episodi di violenza nei confronti degli esattori si coniugano con i tentativi organizzati da una leadership più moderata di trattare con il governo, ma in una situazione generale in cui le autorità sono esautorate.

L’intervento militare viene quindi condotto nell’estate del 1794, anche se mancano avversari reali: di fatto, si tratta solo di una dimostrazione di forza da parte del governo federale, fortemente voluta dal solito Hamilton.

L’episodio va oltre la semplice repressione.

Tra la leadership federalista e i coloni della Pennsylvania dell’Ovest si registra un diverso modo di interpretare l’esperimento americano stesso e il tipo di ‘libertà’ su cui si fonda, a partire dalla concezione del ruolo dello Stato federale e di converso della funzione dell’autonomia della comunità, con una comprensione notevole dei rischi associati al processo di accentramento: noi “consideriamo inoltre che questa legge è pericolosa per la libertà”, scrivono in una petizione i ‘ribelli’ del whiskey che si sono auto-convocati a Pittsburgh (con gran scandalo dei federalisti) nell’agosto del 1792, “perché i poteri necessariamente conferiti ai funzionari per la riscossione di una tassa così odiosa sono non solo insoliti, ma incompatibili con il libero godimento della pace domestica e della proprietà privata; perché questi poteri, per prevenire l’evasione dell’imposta, devono inoltrarsi nelle infinite sottigliezze della mente ed essere accresciuti quasi all’infinito”.

Soprattutto, nelle comunità di frontiera il dissidio con lo Stato nazionale prende la forma di un processo di auto-organizzazione, con la creazione di organismi extra-legali come comitati, assemblee e, sull’esempio francese dei club, ‘associazioni democratiche’, nomina di rappresentanti, cooptazione delle autorità statuali e di contea, alla ricerca di uno spazio politico che si fonda su una lettura alternativa della Rivoluzione e della Costituzione.

L’arrabbiato federalista del Massachussetts Fisher Ames, noto per una significativa frase celebre (“Temo più l’anarchia dei cannoni”), non ha torto quando, nel 1805, riflettendo sulle “due ribellioni contro le nostre leggi sull’erario” (quella del whiskey e quella associata al nome di John Fries, scoppiata nel 1799 nelle stesse zone di frontiera della Pennsylvania), nota che gli oppositori non sono “deboli individui”, ma piuttosto “potenti combinazioni di quelli che, resi audaci dalla distanza, dal numero e dall’entusiasmo, deridono l’autorità della nazioni e sfidano i suoi eserciti”, aggiungendo che essi “agiscono con propri magistrati e leggi, perseguendo interessi che sono non solo diversi da quelli della nazione, ma anche distruttivi nei suoi confronti”.

David Porter, lo storico contemporaneo che si è maggiormente occupato del fenomeno dell’anarchia ai tempi della Rivoluzione americana, scrive che in quell’atmosfera i conflitti ideologici riguardanti la questione della comunità su ampia scala, ovvero se richiedesse la rappresentanza o la deliberazione da parte di tutti, oppure quella del governo, se avesse o no il diritto di esercitare la coartazione, si riducevano tutti a uno scontro di base per uno spazio politico autonomo e fondato sull’auto-governo.

Nel contesto politico volontaristico favorito da molti, i corpi legislativi a ogni livello, con partecipazione diretta o rappresentanza, potevano essere usati semplicemente per comunicare e per coordinarsi liberamente in vista dei bisogni comuni.

Lo scontro tra federalisti e repubblicani jeffersoniani, che si prolunga negli anni Novanta nel corso delle presidenze Washington e Adams e nel primo decennio del secolo successivo nel corso di quelle di Jefferson e Madison, si risolve in sostanza già con l’elezione di Jefferson nel 1800, sostenuto da una coalizione che comprende le comunità di frontiera.

Jefferson abolisce la tassa sul whiskey, dichiara incostituzionali alcuni dei provvedimenti repressivi adottati dall’amministrazione Adams (gli Alien and Sediction Acts del 1798), adotta una politica federale più rispettosa dei diritti delle comunità locali, favorisce gli interessi dei farmers rispetto a quelli degli speculatori e degli hamiltoniani commercial interests.

Si pensi che lo stesso Hamilton viene sostituito al tesoro dallo svizzero Albert Gallatin, uno dei dirigenti della ribellione del whiskey, segretario di quella auto-convocazione di Pittsburgh che produce la petizione sopra citata (e che lo stesso Gallatin potrebbe aver contribuito a stilare).

Così come la presidenza Jefferson sembra quindi riflettere, per lo meno in parte, gli interessi dei corpi locali e delle autorità di frontiera, proprio gli scritti del terzo presidente, insieme a quelli dell’altro democratico radicale Thomas Paine, sembrano costituire l’interpretazione dell’esperimento americano più vicina all’ethos libertario.

Nell’età delle grandi rivoluzioni Paine ha esercitato grande influenza sia in America sia in Europa.

Appena emigrato dall’Inghilterra, diviene con Common Sense uno dei principali apologeti della causa americana; grande sostenitore della Costituzione democratica della Pennsylvania, nondimeno è tra i primi a invocare un forte governo nazionale; lasciata l’America per l’Inghilterra nell’aprile del 1787, non partecipa al dibattito sulla ratifica della Costituzione, ma si ritrova in Francia nel fatidico 1789; la sua risposta alle Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke, Rights of Man (la prima parte pubblicata nel 1791, la seconda l’anno successivo), ne fa il campione degli oppressi e dei ‘sovversivi’ inglesi, che eleggono a massimo best seller del periodo il suo pamphlet antimonarchico e rivoluzionario; a seguito di una condanna al bando perpetuo in Inghilterra, torna in Francia, nel 1792 viene eletto alla Convenzione per la Gironda e nel dicembre del 1793 viene arrestato e trattenuto in carcere per undici mesi dai giacobini, evitando di poco la ghigliottina e scrivendo nel contempo un altro grande successo, il deista The Age of Reason, noto per le sue virulente tematiche anticristiane; rieletto deputato nel 1794, viene costretto da malanni vari a occuparsi poco di politica; tornato negli Stati Uniti nel 1802, vive isolato e criticato (per The Age of Reason) i suoi ultimi anni.

Pur non avendo partecipato ai dibattiti del 1787-88, Paine prende partito nel decennio successivo, schierandosi con decisione contro i federalisti e contro la loro concezione di Stato nazionale (anche perché al loro scarso impegno nei suoi confronti attribuisce il lungo imprigionamento francese del 1793-94).

In una celebre lettera aperta a Washington del 1795, in cui il presidente del momento e quello successivo (John Adams) sono trattati con aperto disprezzo, afferma che, poiché la Costituzione “è una copia, seppure non vile quanto l’originale, della forma della Costituzione britannica”, “è naturale aspettarsi una imitazione dei suoi vizi”, accusando l’amministrazione di aver nutrito sin dal suo inizio “monopoli di ogni tipo”: “Le terre ottenute con la Rivoluzione sono state regalate a partigiani” e “gli interessi dei soldati congedati sono stati venduti allo speculatore” (come Washington e parecchi altri leader federalisti).

Ma è nelle sette lettere ai cittadini degli Stati Uniti, scritte tra il 1802 e il 1803 in difesa della presidenza Jefferson, che Paine sposa con maggior decisione la versione repubblicana degli anni Novanta: il progetto federalista è segnato dal favore di Adams per la ‘monarchia ereditaria’ e da quello di Hamilton per un ‘Senato a vita’, non è null’altro che “un mantello per il tradimento e una maschera per la tirannia” che si propone di distruggere il sistema rappresentativo per mezzo di un “esercito permanente e un prodigo erario”, per ottenere i quali “bisogna inventare menzogne ingannatrici, […] diffondendo allarmismo all’estero per pericoli che non esistono neanche nell’immaginazione”, inaugurando così un ‘Regno del Terrore’ analogo a quello francese, che “ha impazzato in America nell’ultimo periodo dell’amministrazione Washington e in tutta quella di Adams”.

È però in Rights of Man, in particolare nella seconda parte, che Paine precisa ulteriormente le sue idee sulla distinzione necessaria tra società e governo, portando alle estreme conseguenze la posizione spontaneistica dei liberali settecenteschi:

“Gran parte di quell’ordine che regna tra l’umanità non è effetto del governo.

Ha le sue origini nei principi della società e nella costituzione naturale dell’uomo.

Esisteva prima del governo ed esisterebbe anche se la formalità del governo fosse abolita.

La reciproca dipendenza e i reciproci interessi tra uomo e uomo, e tra una parte e l’altra della comunità civile, creano quella grande catena di connessione che la tiene insieme.

Il proprietario terriero, l’agricoltore, il manufatturiere, il mercante, il commerciante e ogni altro mestiere prospera grazie all’aiuto che riceve dagli altri e dal complesso degli altri.

L’interesse comune regola le loro cose e forma la loro legge; e le leggi ordinate dall’uso hanno più influenza delle leggi del governo. In sostanza, la società fa per se stessa tutto ciò che in genere è attribuito al governo”.

La società civile è quindi tenuta insieme dalle leggi che la governano intrinsecamente, non dal governo.

Le modalità associative suggerite dalla Natura, “che non solo forza l’uomo alla società a causa della diversità dei bisogni”, ma impianta in lui “un sistema di sentimenti sociali”, si esplicano attraverso le leggi “dello scambio e del commercio”, leggi che sono “seguite e obbedite” perché “è nell’interesse della parti farlo, non a causa di una qualche legge formale imposta o interposta dal governo”.

Individualismo e sperimentalismo si pongono così al centro dell’argomentazione spontaneistica di Paine: se “gran parte di ciò che si chiama governo è mera imposizione” il suo effetto primario è quello di disturbare i rapporti sociali che si stabiliscono naturalmente, anche se, ammette quasi a malincuore, vi sono anche “pochi casi” in cui si rivela utile.

Ma è difficile fraintendere il suo orientamento:

“Nell’uomo, e ancor più nella società, c’è una naturale adattabilità perché in essa c’è una più grande varietà di abilità e risorse per adeguarsi a qualsiasi situazione in cui viene a trovarsi.

Nell’istante in cui il governo formale viene abolito, la società comincia ad agire.

Ha luogo un’associazione generale, e l’interesse comune produce una sicurezza comune.

È tanto lontano dall’esser vero, come spesso si è detto, che l’abolizione del governo formale equivale alla dissoluzione della società, che spesso tale abolizione provoca come un impulso contrario, che stringe la società ancora più strettamente.

Tutta quella parte della sua organizzazione che ha trasferito al governo passa nuovamente a se stessa, e agisce per suo mezzo.

Quando gli uomini si sono abituati alla vita sociale e civilizzata, tanto per istinto naturale quanto per i benefici reciproci, di tale vita resta sempre abbastanza per portarli attraverso ogni mutamento possano trovare necessario o conveniente fare nel loro governo.

In breve, l’uomo è tanto naturalmente una creatura della società che quasi nulla lo può mettere al di fuori di essa”.

Anche se la discussione di Paine si muove ancora nell’orbita della tradizione hobbesiana-lockiana, il suo uso della locuzione ‘governo formale’ – inteso come l’insieme di principi che determina il ‘governo’ affermato storicamente, ovvero, in altri termini, lo Stato moderno – prefigura l’alternativa libertaria, ovvero un altro stile di ‘governo’, fondato più strettamente su principi associativi ‘naturali’.

Sulla stessa linea si muove la riflessione del terzo presidente degli Stati Uniti, che, nonostante la ‘pesantezza’ della sua carica istituzionale, ha diritto, come l’amico Paine, di esser posto in quel ristretto gruppo di liberali settecenteschi in cui la tentazione separatistica e spontaneistica rischia costantemente di esondare in un pieno ethos libertario.

Le idee di Jefferson sulla relazione tra società civile e governo devono molto alla tradizione primitivistica francese e risultano per certi versi ancora più radicali di quelle di Paine.

Nella Query 11 delle Notes on Virginia (testo scritto nel 178?) troviamo una descrizione emblematica delle società dei selvaggi:

“La pratica [di separarsi in molte società piccole] consegue dal fatto che non si sono mai sottomessi ad alcuna legge, ad alcun potere coartante, ad alcuna ombra di governo.

I loro soli controlli stanno nelle loro usanze e in quel senso morale del giusto e dello sbagliato che, come il senso del gusto e del tatto, fa parte della natura di ogni uomo.

Un’offesa contro queste è punita con il disprezzo, con l’esclusione dalla società o, dove il caso è serio, come per un omicidio, dagli individui coinvolti.

Per quanto possa sembrare imperfetto questo tipo di coercizione, tra di loro i crimini sono molti rari; al punto che se si chiedesse se nessuna legge, come tra selvaggi d’America, o troppa legge, come tra i civili d’Europa, assoggetta l’uomo al male maggiore, chi ha visto entrambi gli stili di vita direbbe la seconda. […]

Si dirà che le società grandi non possono esistere senza governo.

È per questo che i selvaggi le spezzano in società piccole”.

Nella corrispondenza da Parigi nel fatidico 1787, il console americano si confronta con i temi che più preoccupano i suoi connazionali (la ribellione di Shays e il progetto di Costituzione) reiterando la sua personale risposta della Query 11.

Il 16 gennaio scrive a Edward Carrington che “quelle società (come gli indiani) che vivono senza governo godono, nella loro massa generica, di un grado di felicità infinitamente maggiore di chi vive sotto i governi europei.

Tra le prime, la pubblica opinione sta al posto della legge e tiene a freno la morale con stessa potenza delle leggi in altri luoghi”.

Quindici giorni dopo Jefferson torna sull’argomento con Madison, spiegandogli che “le società esistono in tre forme facilmente distinguibili”: quella “senza governo, come tra i nostri indiani”; quella sotto governi “dove la volontà di ognuno ha la giusta influenza”; quella sotto “i governi di forza”.

“È un problema, non chiaro nella mia mente”, commenta, “che la prima condizione non sia la migliore.

Ma credo che non sia coerente con una popolazione molto grande”.

“E noi pensiamo che il nostro sia un cattivo governo”, scrive sempre nello stesso anno a ?? Rutledge, “l’unica condizione che secondo me si può paragonare alla nostra è quella degli indiani, che hanno anche meno legge di noi”.

Come per Paine, il riferimento alla società senza Stato, o meglio a una società civile la cui sopravvivenza è quasi del tutto indipendente dalla presenza regolatrice dello Stato, va inquadrato in una prospettiva individualistica e spontaneistica.

A parere del terzo presidente, al governo non vanno ceduti tre tipi di diritti: “Il diritto di pensare e di rendere pubblici i nostri pensieri con la parola o lo scritto; il diritto al libero commercio; il diritto alla libertà personale”, dichiara nel 1789 a John Humphreys; in una celebre ‘opinione di gabinetto’ anti-federalista avanzata il 15 luglio 1790 scrive con franchezza che “ogni uomo, e ogni corpo di uomini sulla terra, possiede il diritto all’autogoverno.

L’ha ricevuto, con il suo essere, dalla mano della natura”.

Da qui la sua posizione inconsueta sui rivolgimenti rivoluzionari –per le meno di quelli precedenti alla Rivoluzione francese – che alle orecchie dei suoi contemporanei, ma anche di alcuni dei suoi posteri, suona spesso come scandalosa: “Ogni tanto una piccola ribellione è una buona cosa, tanto necessario al mondo politico come le tempeste lo sono a quello fisico”, dichiara a Madison nel 1787, dopo neanche un anno dalla ribellione di Shays, mentre al colonnello Smith scrive più o meno nello stesso periodo che “l’albero della libertà deve essere ogni tanto rinfrescato con il sangue dei patrioti e dei tiranni”.

La visione jeffersoniana del progresso si allaccia a una concezione che potremmo definire di democrazia fallibilistica monarchica.

La fiducia quasi totale nel ‘senso comune’ del popolo si appoggia all’idea che la cultura e l’informazione garantite da una libera stampa siano garanzie sufficienti per assicurare un funzionamento corretto dei meccanismi del governo, in un quadro di presenza ‘minima’ del governo stesso: “Toccasse a me decidere se avere un governo senza giornali o giornali senza governo”, scrive nella sopra citata lettera a Carr del 1787 con una figura retorica che ritorna alla ‘sufficienza’ della società civile, “non esiterei un momento a scegliere la seconda soluzione”.

Non a caso, una delle sue frasi più celebri, “la terra appartiene ai viventi” (la migliore confutazione assiomatica della posizione dei conservatori tradizionalisti come Burke o De Maistre), è da intendere come la giustificazione del diritto di adeguare costantemente le istituzioni all’evoluzione della vita associata: “Mentre [il progresso della mente umana] si fa via via più sviluppato e illuminato, mentre si fanno nuove scoperte e si dischiudono nuove verità, e i modi e i costumi cambiano al mutare delle circostanze, anche le istituzioni devono avanzare e tenere il passo dei tempi”.

Di conseguenza, ogni generazione “ha il diritto di scegliere per se stessa la forma di governo che crede promuova meglio la sua felicità”, ed è quindi “per la pace e il bene dell’umanità che una solenne opportunità di far questo ogni diciannove o vent’anni deve essere fornita dalla Costituzione”.

Probabilmente Paul Goodman pensa a quest’idea jeffersoniana quando nota che i coloni “pensavano di poter continuare a riscrivere” il documento fondativo della nazione.

Paine e Jefferson interpretano entrambi l’esperimento americano come una soluzione istituzionale fondata su un ‘governo minimo’, in un quadro entro cui l’insistenza liberale sull’inevitabilità dello Stato viene costantemente abbinata all’idea dell’autosufficienza della società civile e dell’autonomia dell’individuo, producendo una concettualizzazione delle istituzioni statuali moderne come un ‘male’ (forse) necessario, ma anche una diffusa rappresentazione del rapporto cittadino/Stato in termini di ‘sospetto’ del primo verso il secondo: “Il libero governo è fondato sul sospetto [jealously], non sulla fiducia”, scrive Jefferson nelle Kentucky Resolutions dell’ottobre 1798, una delle più violente critiche della deriva autoritaria del governo Adams (in particolare, del Sedition Act), “è il sospetto, non la fiducia che prescrive Costituzioni limitate, per vincolare quelli cui siamo obbligati ad affidare il potere”.

Cui siamo obbligati: il riferimento alla ‘società senza Stato’ è presente come ideale regolativo e come parametro dell’autonomia della società civile dal governo, ma nessuno dei due, nonostante entrambi sembrino accettare la sostanza dei presupposti antropologici ed epistemologici della tradizione libertaria, riesce davvero a configurare la vita associata all’infuori dello Stato moderno, ovvero a liberarsi del ‘pregiudizio’ liberale contro la separazione e l’autonomia.

Anche se entrambi concepiscano il retto ‘governo’ come esercizio di potere decentrato e affidato alle comunità, non riescono però a immaginare sino in fondo istituzioni alternative allo Stato moderno che esercitino quelle funzioni che a loro parere solo tale ente può realisticamente gestire (politica estera, regolamentazione dell’istruzione, eccetera).

Insomma, nella loro interpretazione dell’esperimento americano come possibile quadro istituzionale di una società che cresce sulla base delle relazioni di mercato il ‘terrore’ liberale per il disordine insito nello sviluppo autoctono e spontaneo viene ridotto ai minimi termini, restando però la cifra complessiva del discorso.

Ma proprio per questo motivo, per la presenza decisiva ma non pienamente esplicitata dei principi libertari sin dal momento della fondazione della nazione, quando nel corso dell’Ottocento i teorici americani dell’anarchismo sapranno superare tale ‘terrore’, saranno anche in grado di riprodurre l’ethos libertario in una versione particolarmente forte e convincente, pensandolo cioè fuori dai canoni della sinistra rivoluzionaria emersa con la Rivoluzione Francese, come esito supremo di un percorso insieme macroculturale (frutto dell’esperienza europea moderna avversa allo Stato) e nazionale (frutto della peculiare esperienza americana). Probabilmente è a questa tradizione, a questo complesso intreccio di motivi, che pensa Benjamin Tucker, il maggior esponente dell’anarchismo maturo statunitense, quando a fine Ottocento per definire i libertari non trova null’altro di meglio che unterrified Jeffersonian democrats, con quell’unterrified a spiegare tutta la distanza percorsa da alcuni non indegni eredi di Jefferson e Paine.

Pietro Adamo