La Memoria: 5° parte – La memoria degli Ebrei

Per determinare la portata di tale nozione, opereremo dapprima una sorta di “censimento” dei sinonimi di ‘memoria’ presenti nel testo biblico sia nella traduzione greca dell’Antico Testamento cosiddetta “dei Settanta” sia nel Nuovo Testamento.

Confronteremo poi la ricorrenza percentuale dei medesimi termini nella letteratura greca dell’età classica ed ellenistica: già dal loro variare, sarà possibile constatare un correlativo cambiamento di mentalità.

Vedremo infine, nel successivo § 7, come il Nuovo Testamento presenti un significato nuovo e diverso di ‘memoria’ – quella che mi è piaciuto già in via preliminare dichiarare come “memoria prolettica” – radicalmente alternativo sia a quello greco originario sia a quello dell’Antico Testamento (per un maggiore approfondimento dell’intera questione, si veda K. H. BARTELS, Voce “Memoria” in L. COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD [a cura di], Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1976, pp. 990-996).

 

Incominciamo, dunque, dai termini biblici.

Per l’Antico Testamento, come si è detto, faremo riferimento alla versione dei Settanta, su cui vale la pena di spendere due parole.

L’origine di tale traduzione è originariamente riferita dalla leggenda contenuta nella Lettera di Aristea a Filocrate. Secondo tale racconto, il sovrano egiziano Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) commissionò alle autorità religiose del Tempio di Gerusalemme una traduzione in Greco del Pentateuco per la neonata biblioteca di Alessandria. Il sommo sacerdote Eleazaro nominò allora settantadue scribi, sei per ciascuna delle dodici tribù di Israele (secondo altre versioni, settanta: è appena il caso di dire che sette, coi suoi multipli, è un numero simbolico …), i quali si recarono ad Alessandria e vennero accolti con grande calore dal sovrano. Stabilitisi nell’isola di Faro, essi completarono la traduzione in settantadue giorni, indipendentemente l’uno dall’altro. Al termine del lavoro, comparando fra loro le versioni, si accorsero con meraviglia che erano … tutte identiche!

Alcuni riferiscono fossero in realtà solamente cinque i traduttori, settanta invece sarebbero stati i membri del tribunale (sanhedrin) che approvò la corrispondenza fra testo tradotto ed originale.

Meno leggendarie le notizie sulla traduzione dei restanti libri. Una scuola di traduttori si occupò del Salterio, sempre ad Alessandria, verso il 185 a.C.; in seguito furono tradotti Ezechiele, i dodici Profeti minori e Geremia. Dopodiché vennero fatte le versioni dei libri storici (Giosuè, Giudici, Re), e infine di Isaia. Gli altri libri – Daniele, Giobbe e Siracide – furono tradotti verso il 150 a.C. A parte il Pentateuco e il Salterio, di origine appunto alessandrina, vi sono incertezze sulla località in cui vennero tradotti gli altri libri. Si situa invece in Israele nel I secolo a.C. la versione del Cantico dei Cantici, delle Lamentazioni, di Rut e Ester, poi quella dell’Ecclesiaste, probabilmente di Aquila.

 

La prima parte di questo racconto, quella imperniata sul numero Settanta, certo improbabile circa il suo effettivo contenuto storico, è tuttavia preziosa per cogliere l’alta considerazione di cui questa versione dell’Antico Testamento ebbe a godere presso l’Ebraismo antico e, più in generale, presso tutta l’ecumène (cioè, il mondo del tempo, che ricopriva un’area che andava da Cadice all’Afghanistan, dove il Greco, nella versione semplificata della koiné, svolgeva appunto la funzione oggi ricoperta dall’Inglese). Si può anzi dire che tutto il mondo antico – anche in concomitanza col progressivo diffondersi del Cristianesimo – ebbe a che fare con questo testo veterotestamentario greco (da Sant’Agostino ritenuto addirittura ispirato!) assai più che con quello originale. Da qui la sua straordinaria importanza per chiunque intenda ricostruire il significato di molti termini filosofici e/o religiosi.

 

Per il Nuovo Testamento, non occorre invece giustificazione per la scelta della lingua, poiché esso fu redatto originariamente tutto in Greco, con la sola eccezione del Vangelo di San Matteo (peraltro non pervenutoci nella redazione ebraica). Certo, si trattava di Ebrei che, per così dire, “traducevano” in Greco un’esperienza religiosa di radice semitica, e la scelta linguistica del Greco fu indubbiamente geniale, poiché non poco contribuì alla diffusione del Cristianesimo nel mondo romano, in cui il Greco era correntemente inteso: è un po’ come se una nuova setta religiosa albanese decidesse oggi di redigere i propri libri sacri in Inglese e di trasferire a New York la propria sede centrale!

 

Premesso questo, possiamo dire che, fra i numerosissimi sinonimi di ‘memoria, memorare’ presenti in Greco antico (per una cui compiuta trattazione, si rimanda a P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique la la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris s. d., voce mimnéskō), quelli presenti nella Bibbia sono per lo più i seguenti: i verbi mimnéskomai (‘ricordare’ nel senso di “rammentare, ricordarsi”) e mnēmonéuō (‘ricordare’ nel senso di “menzionare”), e i nomi mneía e mnémē (‘memoria’ nel senso di “ricordo”), mnēmósynon (‘ricordo’ nel senso di “memoriale”), anámnēsis (‘memoria’, nel senso di “commemorazione” e “rimemorazione”) e hypómnēsis (‘ricordo’).

Tutte queste parole – al pari del più volte ricordato Mnēmosýnē e del latino memoria – rimandano alla radice indoeuropea mēn (non a caso una delle più feconde del suo “vocabolario compatto”), “che si identifica con l’eccitazione intellettuale e, in certe aree, rasenta anche il valore del ‘folleggiare’: questo, perché la mentalità primitiva non scinde la memoria dall’intelligenza, e considera il ricordo quasi come un potenziamento del pensiero” (G. DEVOTO, Origini indoeuropee, Sansoni, Firenze s. d., p. 204).

In tutte le lingue indoeuropee, i termini riconducibili a questa radice rinviano, difatti ad almeno due fondamentali orientamenti spirituali:

atteggiamenti provocati da una profonda commozione, sino ad assumere forme o di esteriore violenza (greci: maínomai, ‘essere fuori di sé, invasati’; manía, ‘follia’; ménos, ‘potenza’) o di intima meditazione (greci: mnémōn, ‘consigliere’; mnêma, ‘monumento’);

l’intenzione della volontà umana intesa come totalità (greco mémona, ‘penso, ho voglia, desidero’).

Da qui i tre significati fondamentali che, un po’ in tutte le lingue indoeuropee, si ricollegano direttamente o indirettamente a ‘memoria’:

“rammentare, ricordare, ricordarsi”, nel senso della capacità di collegare passato e presente;

“esser memore, tener presente, rammentare, render noto”, per utilizzare il riferimento al passato in vista dell’agire presente;

“riflettere, valutare”, per collegare l’azione presente con gli eventi futuri.

Non a caso la radice indoeuropea mēn è rinvenibile pure nei termini latini memini (‘ricordare’), mens (‘mente’) e … mentior (‘mentire’)!

Inoltre memini è un verbo difettivo (che manca, cioè, di alcuni modi e tempi): il suo significato è inteso il più delle volte come presente, ma esso ha solo le forme del perfetto, in questo caso data la natura del ricordo, che ha radici nel passato (perciò si parla, in casi come questo, di perfetto logico).

Anche in lingua italiana, il termine ‘mente’ è stato spesso usato come sinonimo di ‘memoria’ (ad esempio, le espressioni dantesche “la mente che non erra” e “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi” di cui a Inferno, II, rispettivamente v. 6 e v. 8).

 

Venendo al Greco classico ed ellenistico (per il quale non forniremo esempi, stante la strumentalità del presente paragrafo all’acclaramento dell’uso biblico), dobbiamo dire preliminarmente che tutti i termini prima richiamati – come gli altri direttamente o indirettamente riferibili a ‘memoria’ – non sono usati con particolari distinzioni. Sono perciò non le singole parole, ma il loro particolare “valore d’uso” derivante dal contesto, ad aiutarci a rinvenirne le diverse sfumature di significato, le quali sono fondamentalmente cinque:

  1. a) ricordarsi, rammentarsi, ricordo (nel 50% dei casi: è l’uso specificamente platonico!),
  2. b) riflettere, ponderare, pensare a (5%);
  3. c) ricordarsi di qualcuno, con intenzione benevola oppure ostile (10%);
  4. d) avere in mente, essere memore, tener presente (10%);
  5. e) menzionare, notificare, citare, evocare, ammonire (25%).

 

Nella versione dei Settanta, se prendiamo per base le accezioni in Greco puro, questi stessi vocaboli (usati per lo più per tradurre quelli derivanti dalla radice ebraica zkr) fanno riscontrare frequenze diverse (indicate direttamente fra parentesi):

  1. a) (24%) “Ma il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò” (Gn. 40, 23); “per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato” (Sap. 12, 2);
  2. b) (5%) “O morte, com’è amaro il tuo ricordo” (Sir. 41, 1);
  3. c) (18%) “Dio si ricordò anche di Rachele; Dio la esaudì e la rese feconda” (Gn. 30, 22);
  4. d) (30%) “Ti ricorderai che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha riscattato” (Dt. 15, 15);
  5. e) (23%) “il re ordinò di prenderne nota negli archivi reali” (Est. 2, 23).

Tale differente frequenza nel ricorrere, unita alle varianti contestuali, comporta in molti casi l’assunzione, da parte dei sinonimi di ‘memoria’, di specifici significati biblici del tutto ignoti alla cultura greca:

α) pronunciare nella preghiera davanti a Dio: “la colpa dei suoi padri sia ricordata al Signore” (Sal. 109, 14);

β) annunziare l’esperienza, nella forma del ricordo, del soccorso gratuito di Dio nel passato che continua ad operare nel presente.

Sulla memoria di tale soccorso, da allora ancora vivo e operativo, poggiano infatti il presente del popolo d’Israele, la sua fede in Dio salvatore e liberatore, l’ubbidienza a Lui che guida la Storia, la Sua adorazione nel culto: parola pronunciata, cantata, danzata e ascoltata nella quotidianità del ciclo festivo. Proprio attraverso la ripetizione cultuale, che “fa memoria” di quanto accadde, la Storia della Salvezza diventa una realtà contemporanea: “Verrò a cantare le imprese del Signore Dio: / farò memoria della tua giustizia, di te solo” (Sal. 71, 16).

Perciò lo stesso “giorno di festa” è mnēmósynon (zikkarōn in Ebraico): “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne” (Es. 12, 16);

γ) riconoscere Dio come Creatore e Signore adorandolo, servendolo e ubbidendogli: “Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio” (Nm. 15, 39-40).

Ecco perché, ad esempio, mnēsthésontai indica l’atto di rivolgersi nella fede al Signore: “Ricorderanno e torneranno al Signore / tutti i confini della terra” (Sal. 22, 28). Del resto, la situazione di fede dell’uomo non può consistere che nel “ricordarsi di Dio”: “Davvero il coraggio che ti ha sostenuto non sarà dimenticato dagli uomini, che ricorderanno per sempre la potenza di Dio” (Gdt. 13, 19);

δ) lodare, confessare, professare nell’adorazione e nel culto.

“Tutti gli Israeliti che saranno scampati in quei giorni e si ricorderanno di Dio con sincerità, si raduneranno e verranno a Gerusalemme” (Tb. 14, 7).

Tale significato non a caso ricorre soprattutto nei Salmi: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, / della sua santità celebrate il ricordo” (Sal. 30, 13); “Il tuo nome voglio far ricordare per tutte le generazioni; / così i popoli ti loderanno in eterno, per sempre” (Sal. 45, 18); “Gioite, giusti, nel Signore, / della sua santità celebrate il ricordo” (Sal. 97, 12).

Particolare attenzione meritano poi le “rubriche liturgiche” dei Salmi 38 e 70: “Per fare memoria”, proprio nel senso di confessione-professione.

Quest’ultimo senso, come vedremo, verrà particolarmente enfatizzato dall’esperienza cristiana con nuovi e fecondi sviluppi.

 

Prima di esaminare i quali, vale la pena di evidenziare, in sintesi, la forte differenza intercorrente fra la ‘memoria’ greca e quella ebraica. Anch’essa è “traccia”, sì, ma d’una vitale esperienza di relazione che sempre di continuo si rinnova.

La ‘memoria’ ebraica infatti, a differenza di come la intendeva la cultura dell’oralità, trasmette non un sapere già dato, ma il significato di una vocazione per la vita; a differenza della memoria orfica, non determina cesure nella realtà: anch’essa comporta sì un “dimenticare” la vita quotidiana, ma non per abbandonarla: anzi, per riprenderla rinnovati. A differenza della ‘memoria’ platonica, è dunque tutta interna alla Storia. La ‘memoria’ degli Ebrei intende quindi in maniera diversa la nozione che oggi diremmo di “trascendenza” del Divino. L’azione di Dio infatti, concretamente attuata nel passato, continua ad operare nel presente tramite la sua rimemorazione-rinnovazione da parte degli uomini, sia nella loro quotidianità di vita sia, più in particolare, nella loro pratica cultuale.

Raimondo Fassa