Floriano Bodini
Un omaggio

In occasione del decimo anniversario della scomparsa di Floriano Bodini, l’associazione Varese Può ha voluto ricordare l’illustre artista con una mostra allestita presso la Sala Veratti a Varese.

Grazie alla collaborazione con il Comune di Varese – Assessorato alla Cultura, agli enti patrocinatori – Consiglio Regionale della Lombardia, Fondazione Cariplo, Pontificio Consiglio della Cultura, Camera di Commercio di Varese, Associazione Amici Museo Bodini, Provincia di Varese – è stato possibile organizzare l’esposizione di una trentina di opere grafiche che ripercorro la vita artistica di Floriano.

Il testo del catalogo che accompagna la mostra, scritto da Arturo e Stefano Bodini (rispettivamente fratello e nipote dello scultore) ripercorre la carriera di Floriano Bodini dagli inizi, negli anni Cinquanta, fino agli anni Ottanta, epoca in cui iniziano le grandi commesse per opere pubbliche.

Non essendo un critico d’arte, ma un semplice estimatore dell’opera di Bodini, non entro nel dettaglio della tecnica o della critica alle sue opere, bensì mi limito a riportare di seguito alcuni testi che meglio descrivono l’arte di Bodini.

Michele Castelletti

Floriano Bodini. Un Omaggio

Testo di Ubaldo Rodari, curatore della mostra

La mostra allestita recentemente presso la Sala Veratti a Varese vuole essere un omaggio allo scultore Floriano Bodini ed in particolare alla sua produzione grafica, contrassegnata da una lunga ed attenta ricerca di quel segno che ne avrebbe poi caratterizzato l’espressione.

L’allestimento vuole condurre il visitatore lungo un percorso che si dipana nell’arco di circa venticinque anni di sperimentazione e di ricerca che fa di Bodini uno degli artisti tra i più interessanti di quel periodo storico compreso tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Ottanta. Terminato il primo periodo legato agli studi accademici che vedono una produzione grafica più attenta alle soluzioni della pittura che della scultura, Bodini inizia, partendo dal 1959 circa, una stagione di produzioni incisorie che segnalano una maggiore attenzione all’uso di un segno più vicino alle problematiche socio – esistenziali dell’immediato dopoguerra.

Abbandonata la tecnica di incisione diretta (puntasecca) l’artista si concentra sulle possibilità espressive dell’acquaforte, individuando una grammatica del segno che porterà a una accentuazione espressiva delle forme rappresentate.

La successiva scoperta della tecnica litografica su pietra gli consentirà di arricchire questo complesso vocabolario formale.  La linea si fa  robusta, forte nei suoi spessori ,decisa nel suo svolgersi  che egli tornerà a trasferire verso le metà degli anni ’60  sulle lastre in acquaforte, arricchendo ulteriormente il suo alfabeto compositivo e realizzando quei fogli importanti che saranno considerati nella produzione grafica, tra i più interessanti in Europa.

 

Nelle foto seguenti una selezione delle opere esposte

 

Un diario spietato

Dalla pubblicazione “Un diario spietato”, primo catalogo generale dell’opera grafica di Bodini (Milano – 1973)

[…] L’opera grafica di Bodini ha una fisionomia e una consistenza tali da metterla in primo piano sia nell’attività dell’artista che nel panorama dell’arte incisoria italiano ed europeo. Certo che l’impegno di Bodini è stato sin qui grande: lo dimostra la singolare bellezza (già rilevata con entusiasmo da Bernd Krimmel) di molti di questi fogli nei quali è possibile vedere come il senso tragico della vita, lo sdegno verso i mali e le offese siano stati resi con l’autorità del maestro autentico che si rivela (ad esorcizzare i mostri) innanzitutto in quella grazia certo dolorosa ma mai illudente che è l’anima della poesia”. […]

[…] Pur ricordando spesso le sculture che Bodini ha modellato contemporaneamente ad esse, queste incisioni non sono affatto dei facsimili, essendo state concepite autonomamente ed eseguite cercando via via una padronanza sempre più precisa dei mezzi adatti […]. Qua e là si potrà vedere, curiosamente, un ricordo delle esperienze pittoriche di Bodini; a volte la sovrapposizione di figure e frammenti darà, forse, l’impressione di una volontà troppo impegnata a dire. Ma anche qui è necessario ricordare la personalità di Bodini, le varie tappe della sua ricerca che da un amaro espressionismo è andata verso un’oggettivazione di forme concluse, di equilibri costruttivi […]

 

Nel segno inciso di Bodini le inquietudini della poetica esistenziale

Dal testo di presentazione del catalogo “Floriano Bodini – Le grandi incisioni” scritto da Mauro Corradini (1998)

Dal punto di vista grafico, Bodini è solo parzialmente da considerarsi un autodidatta: se il primo apprendimento avviene fuori dell’Accademia, a contatto con gli amici, è altrettanto vero che la frequentazione di alcuni straordinari incisori, la scelta dello stampatore che lo segue per tutto il suo cammino con regolarità e competenza (Giorgio Upiglio), l’essersi affiancato per qualche tempo ad Enrico Gaudino, […] tolgono a Bodini la “patente” di autodidatta; certamente gli mancano gli studi accademici, ma non gli mancano quegli apprendimenti “di bottega”, che gli rendono comprensibile la complessità del segno inciso».

 

Floriano Bodini

Testo di presentazione a firma di Antonello Trombadori per la mostra presso la galleria “La nuova Pesa” a Roma (1967)

Nella scultura di Floriano Bodini il «pensiero dominante» è quello della vita. Ma il mondo poetico,il tessuto razionale, la dimensione naturale e persino tipologica entro i quali il pensiero dominante della vita si svolge,si trasforma in immagini,si esprime,sono quelli del suo contrario: della morte.

Lavorare sul tema della vita muovendo dal mondo della morte, assunto come «camera oscura» per estrarre dal negativo il positivo, è atteggiamento morale inversamente orientato da quello di chi lavora in effetti sul tema della morte rimanendo nostalgicamente aggrappato al tema della vita. In questo caso si ha la trepidante e conclamata passione per un valore alla cui caduta non ci si vuol rassegnare, nell’altro si ha la riproposta di un valore i cui dati biografici e esistenziali risultano come cicatrizzati al setaccio della storia. E’, mi pare, esattamente l’atteggiamento morale di Floriano Bodini.

Floriano Bodini ritratto nel suo suo studio - Anni sessanta (foto Pepi Merisio)
Floriano Bodini ritratto nel suo suo studio – Anni sessanta (foto Pepi Merisio)

Non direi pertanto,come ha fatto in modo efficace ed acuto Giuseppe De Lucia (presentazione di F.B. alla Galleria del Minotauro, Brescia 1966),che quello della morte è uno fra i problemi affrontati dal giovane scultore lombardo,e nemmeno direi che «vita» e «morte» si presentano nell’opera sua intrecciate in una dialettica figurativa al traguardo della quale stanno la catarsi e la speranza. Mi pare che sulla scorta di una tale interpretazione si finirebbe con lo scantonare dal tema stesso che Bodini pone e dal quale egli tenta di far rigorosamente discendere le sue scelte formali, linguistiche, di stile.

Nella scultura di Bodini la vita,deliberatamente esclusa dal campo visivo figurale,riemerge come fatto assoluto nel campo interiore del giudizio. In un momento di dilagante vitalismo tecnologico (e di parallele decadenti «rivisitazioni» dei vicoli ciechi della storia dell’arte moderna) il caso di Floriano Bodini tanto più mi appare singolare e coraggioso. Ben diverso, del resto, malgrado le apparenze,da altri tentativi di rivalutazione «neofigurativa» della scultura di immagine. Fra il «terribilismo» di Perez, ad esempio, e l’arcaismo di Bodini, non c’è punto di collegamento. Non soltanto sul piano dei risultati poetici,ma anche sul piano del modo stesso col quale viene posto il problema dello specifico destino della scultura. In fondo, Perez rivaluta il vecchio problema della traduzione in equivalenti plastici di una emozione,di un tratto della vita interiore, di una sensazione. Bodini muovendo da una idea generale mira a «strutturare» specificamente la materia: egli non traduce in equivalenti plastici, tenta bensì di fare la scultura,di produrre valori espressivi immediati. In questo senso Bodini accoglie, rovesciandone i termini,la lezione di Manzù. Questi parte dalla sensualità ottica e tattile della materia per liberarne sensazioni e sentimenti; Bodini parte da sensazioni,sentimenti, e, in primo luogo,da un punto di vista etico, per dare forma alla materia. Nell’un caso e nell’altro la « forma » è un risultato. Nel caso di Perez è uno strumento emozionale.

Ciò premesso,occorre avvertire che la scultura di Bodini si distacca del tutto dalla impostazione ideologico-culturale della quale egli fu coautore agli esordi della sua attività. Intendo quella impostazione che fu propria,circa dieci anni or sono,di un gruppo omogeneo di giovani artisti milanesi,da Guerreschi a Vaglieri,che Mario De Micheli, presentando un’altra mostra di Bodini, ha definito come «inquietudine» «urto morale» davanti alla «condizione d’angoscia in cui l’integrità della coscienza è minacciata da ogni parte,in cui la stessa vita biologica è messa a repentaglio ».

Tale impostazione (al riparo della quale si tende da tempo e non senza motivi a porre una ben più vasta area delle arti figurative di questo dopoguerra su scala mondiale) è, per sua natura, denunciataria, protestataria, contestataria, come più spesso si dice con termine troppo generico. È in altri termini una impostazione indicante il ricorso verso moduli e stili e atteggiamenti morali che furono propri del ribellismo antiborghese delle avanguardie intellettuali alla vigilia, a cavallo e subito dopo la prima guerra mondiale.

Non a caso anche nel suo revival odierno ciò che in linea formale- espressiva ne è in primo luogo scaturito è ancora il metodo del paradosso, della forzatura illuministica, della impaginazione grafica di tipo propagandistico, dell’approssimazione per analogie indirette ai limiti del surreale, e,persino, al fondo, della estetizzazione del cinismo alla pari di quanto è accaduto a coloro che, per l’opposta via dell’informale, si sono dedicati, anche senza volerlo, alla estetizzazione dell’angoscia.

Floriano Bodini mi sembra aver tagliato corto. Non vedo nella sua scultura alcuna intenzione di ammaestrare, di persuadere, di coinvolgere. Mi sembra al contrario che egli abbia un irresistibile bisogno di rappresentare e di comunicare, testimoniandone all’estremo gli aspetti essenziali, qualcosa di già rivelato, di pienamente palese, di incontestabile. Di Bodini si può senza tema di errore affermare che egli appartiene a quel tipo di artisti per i quali ciò che conta è la «verifica» dell’esistente ben più della «esplorazione» dell’opinabile.

La dimensione della morte è presente in Francis Bacon. Ma come malsicuro abbraccio d’una vita che sembra sfuggire per sua interna inarrestabile decomposizione. È presente in Manzù. Ma come dolorosa e tuttavia sensuale prospettiva di incenerimento. È presente in Guttuso. Ma come battente monito del tragico quotidiano. È presente in Ipousteguy. Ma come fossile materializzazione del presente. Nella scultura di Bodini, ed è il solo caso che io conosca nell’arte contemporanea, la dimensione della morte pretende di essere globale.

Non è tanto perciò nel rapporto con le attuali condizioni di angoscia e terrore del mondo che vanno ricercate le sue radici, quanto nel travaglio umano e ideologico di Bodini stesso alla ricerca d’una personale certezza etica ed estetica. Certo il movente storico esiste in questa scultura che alza davanti a noi come un invalicabile «muro d’ombra»,ma l’impulso che da essa ci viene a valicare quel muro non muove tanto dal bisogno di abbatterlo, quanto dalla necessità di prenderne atto,di sentirselo vivere sulle carni come un cilicio,se non addirittura come il tagliente spigolo di una croce (e c’è da pensare che Bodini alluda in particolare alla croce di Cristo).

1965. Fonderia Battaglia. Foto con tre grandi ritratti appena terminati: da sinistra “Maternità n.2”, “Ritratto del padre”, “Ritratto di Enzo Fabiani”. Sullo sfondo litografia “Paola e la rana”. (Foto Merisio)
1965. Fonderia Battaglia. Foto con tre grandi ritratti appena terminati: da sinistra “Maternità n.2”, “Ritratto del padre”, “Ritratto di Enzo Fabiani”. Sullo sfondo litografia “Paola e la rana”. (Foto Merisio)

Di qui tutta la forza (la sincerità) della scultura di Bodini tutta la sua certezza espressiva (il suo provocante cartello di sfida antiaccademico), ma anche tutti gli ardui problemi che davanti gli si aprono proprio sul terreno della fedeltà formale a tale impostazione. Primo fra tutti quello di sfuggire al rischio del «funebre»: il rischio cioè di ridurre ogni energia vitale a larva peritura, ogni umana verità a marginale relitto, a scoria da utilizzare quasi scenograficamente entro composizioni suggestive, strumentali, riluttanti ad affrontare il confronto con la luce e destinate piuttosto al buio di una meditazione struggente, fino alla identificazione della scultura nel simulacro edificante d’una dottrina.

Si tratta d’un rischio assai grave. Ma è evidente che il compito di Bodini non è tanto quello di evaderlo quanto quello di calcolarlo. Bodini non può,pena la caduta in frantumi di tutto il suo sistema creativo, che passare attraverso questo rischio. E non importa se nel panorama che Bodini può mostrarci di quasi un decennio di lavoro emerge talvolta della sua scultura soprattutto il dato più esterno e anche più appariscente di bravura e cultura: ciò che si potrebbe definire una illustre contaminazione di romanico,di barocco,di espressionista. Trovo che tali limiti siano in parte riscontrabili in opere complesse come ad esempio la «Crocifissione» e «Papa e Vescovi» ambedue del 1963, nelle quali, peraltro,non appena si isolino certi compiuti particolari del volto umano la contaminazione puramente emozionale dei linguaggi lascia subito il posto a ben altrimenti unitarie e autonome sintesi plastiche.

Quella di Bodini si configura come una lotta continua per ricollegare sulle sue basi il rapporto fra ciò che egli sente e pensa con i mezzi per renderlo figurativamente esplicito. Antico problema dell’arte, ma quanto raro e desueto ai giorni nostri. Come Eva dalle costole di Adamo,dalle alterne fortune di questo travaglio che,come s’è detto, si configura in Bodini nella continua vigilante estrazione della vita dal suo contrario, nascono a mio avviso i cosiddetti «ritratti». Anzi è proprio nella limitazione plastica del «ritratto» che Bodini ha scoperto, meglio ha trovato, lo sbocco naturale del suo pensiero dominante. Il ritratto della persona coi suoi viventi attributi somatici, persino caratteristici (ma senza mai cadere nella forzatura espressionistica) tanto più esaltati ed amati (o vituperati) nella loro umana durevolezza, quanto più bruciati, come in un folgorante flash d’attualità,nell’impatto con l’impronta eterna della morte.

Non si tratta quindi (come ugualmente non si trattò nel caso dei contemporanei «ritratti» di Sergio Vacchi) della riscoperta e della rivalutazione, per quanto nobile, di un genere. Si tratta della riconquistata validità della scultura d’immagine ai fini d’una alta testimonianza morale, non naturalistica, non celebrativa, non allusiva. Ma rappresentativa,bensì, d’un conflitto, del più virile dei conflitti,nella apparente immobilità e nella apparente assenza d’ogni conflitto, esattamente là dove la dimensione della morte pretenderebbe di avere tutto pacificato.