A settant’anni dalla bomba di Hiroshima, che conseguenze avrebbe oggi una guerra nucleare?

Il 6 agosto del 1945 un quadrimotore americano B-29 comandato dal maggiore Paul Tibbets, partendo dalla base militare di Tinian, nelle isole Marianne, sganciava sulla città di Hiroshima la prima bomba atomica della storia.

L’operazione, da un punto di vista strettamente militare, riuscì in modo perfetto grazie anche ad una certa dose di fortuna.

Era già successo infatti che ben quattro B-29 sovraccaricati di combustibile e di ordigni esplosivi si erano schiantati il giorno precedente sulla pista di lancio non riuscendo a levarsi in volo prima che i due km e seicento metri della pista finissero.

L’Enola Gay, questo il nome, di sua madre, che il maggiore aveva fatto dipingere sull’aereo il giorno prima, portava, oltre alla bomba atomica, Little Boy da 4400 kg, 26.000 litri di carburante e riuscì ad alzarsi in volo negli ultimi cento metri della pista per affrontare i 2740 km di navigazione per raggiungere l’obiettivo.

Il generale Farrell, che aveva assistito al decollo, dirà poi “cercavamo quasi di farlo alzare con le nostre preghiere e le nostre speranze” (1).

Un’ora prima erano partiti dalla base di Tinian tre altri B-29 per controllare le condizioni meteo su i tre obiettivi possibili, Nagasaki, Kokura e Hiroshima.

Quest’ultima località appariva priva di nuvole e con ottima visibilità e quindi fu scelta per il lancio della bomba.

Il passaggio dei grossi aerei sul cielo nipponico fu immediatamente segnalato e la popolazione avvertita dal suono delle sirene alle 8,09; l’allarme rientrò dopo 22 minuti.

Niente accadde invece quando l’Enola Gay sorvolò mezz’ora dopo la città all’altezza di circa 9.000 metri; si pensò, al comando giapponese, ad una isolata missione di ricognizione.

Non ci fu contraerea, nè caccia e neanche le batterie costiere aprirono il fuoco.

Così, in assoluta tranquillità, alle 9,15, Little Boy fu sganciata da circa 9.500 metri di altezza.

L’altimetro della bomba collegato al meccanismo di accensione era stato tarato a circa 580 metri di altezza dal suolo perché quella era la quota calcolata per provocare la massima devastazione.

La bomba funzionò perfettamente.

L’Enola Gay virò bruscamente per allontanarsi il più rapidamente possibile dall’epicentro dell’esplosione mentre iniziava ad alzarsi l’immensa nuvola a forma di fungo che avrebbe raggiunto l’altezza di 13.700 metri.

Robert Shumard, motorista in seconda dell’aereo, avrebbe detto più tardi “Non c’era altro che morte in quella nuvola. C’erano tutte quelle anime giapponesi che salivano al cielo” (1).

Quando l’aereo era già a 15 km dal luogo del lancio della bomba fu raggiunto dall’onda d’urto dell’esplosione che lo fece sobbalzare e scricchiolare violentemente.

Il presidente Truman fu informato immediatamente mentre si trovava a bordo della nave USS Augusta di ritorno dalla conferenza di Potsdam.

Il 9 Agosto gli Stati Uniti lanciavano un’altra bomba atomica su Nagasaki che provocherà circa 40.000 vittime.

Quello stesso giorno, in un rapporto via radio alla nazione sulla conferenza di Potsdam, Truman dirà tra l’altro (2) “Having found the bomb we have used it (…) We have used it in order to shorten the agony of war, in order to save the lives of thousands of young Americans “ (Avendo inventato la bomba, noi l’abbiamo usata (….) Noi l’abbiamo usata per abbreviare l’agonia della guerra, per salvare le vite di migliaia di giovani Americani).

Il 15 agosto l’imperatore Hirohito comunicava al suo popolo l’accettazione delle condizioni imposte dagli alleati stabilite nella conferenza di Potsdam, ponendo così fine al conflitto.

Hiroshima era stata risparmiata dai bombardamenti negli anni della guerra; della sua popolazione di 365.000 abitanti, 240.000 erano rimasti in città.

La bomba atomica distrusse il 60% della città.

Non è stato possibile calcolare il numero esatto delle vittime anche perché, nella zona centrale dell’esplosione, a causa delle temperature altissime, di parecchie migliaia di gradi, i corpi furono letteralmente vaporizzati senza lasciare alcuna traccia.

I valori più attendibili parlano di 66.000 morti al momento dell’esplosione (il 60% bruciati dal fuoco e dal calore, il 30% a causa del crollo di edifici e strutture varie ed un 10% per effetto delle radiazioni) e di 69.000 feriti dei quali molti moriranno entro la fine del 1945.

Si parla complessivamente di una cifra dell’ordine di 140.000 persone.

E’ importante notare che Little Boy conteneva 64 kg di uranio arricchito (cioè con una quantità dell’isotopo fissile 235, in grado di sostenere una reazione nucleare a catena, molto superiore a quella dell’uranio naturale), ma che al momento dello scoppio meno di un kg di uranio fu soggetto a fissione per cui il sistema si rivelò molto inefficiente e quel modello di bomba atomica fu abbandonato.

La potenza calcolata ex-post per la bomba di Hiroshima risultò di 15 kton cioè pari a 15.000 tonnellate di tritolo.

Attualmente nel mondo vi sono circa 17.000 testate nucleari (il numero esatto non è noto in quanto alcuni stati non hanno mai comunicato i dati esatti del loro armamento nucleare), di cui circa 4000 operative e le altre disponibili in tempi brevissimi ed attualmente stoccate in riserva negli arsenali di 9 nazioni.

Gli Stati Uniti e la Russia ne possiedono il 93%.

Rispetto al picco degli anni 80 di 65.000 ordigni, grazie ai trattati di non proliferazione, c’è stata una notevolissima diminuzione delle testate ed inoltre, eccetto che per alcuni stati come la Corea del nord ed Israele, è attiva un’attenta rete di monitoraggio degli arsenali.

Le potenze di questi ordigni possono arrivare da qualche decina di kton ai 50.000 kton della bomba Tsar russa.

Dall’esperienza maturata dai moltissimi test nucleari compiuti sopratutto in Russia (oltre 700) e negli U.S.A (1054 di cui 278 in atmosfera) negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni ’80, è possibile oggi calcolare approssimativamente le perdite di vite umane in una grande città per l’effetto di una bomba atomica.

L’energia rilasciata dalla palla di fuoco (fireball) creata da un’esplosione nucleare si suddivide per il 50% in un’onda d’urto o di pressione, generata dall’altissima temperatura al suo interno, che viaggia inizialmente a 30 km/sec distruggendo qualunque cosa sul suo cammino fino a perdere progressivamente energia.

Un’onda d’urto con pressione superiore a 3,5 tonnellate/mq provoca morte istantanea per spappolamento degli organi interni.

Il gas caldissimo contenuto nella sfera di fuoco acquista una velocità ascensionale che risucchia tutto ciò che si trova nel suo raggio d’azione portandolo in quota e generando la caratteristica nuvola a forma di fungo.

In seguito avviene il “fall-out”, la ricaduta di polveri spesso radioattive, che può durare mesi investendo tutto il pianeta.

Il 35% dell’energia è disperso come radiazione termica, di calore, responsabile di incendi ed ustioni, e di luce nel visibile e nell’ultravioletto; la radiazione termica può essere letale qualora provochi ustioni di terzo grado su oltre il 40% della superficie del corpo.

Il rimanente 15% è costituito da radiazione ionizzante composta da particelle alfa, beta ma soprattutto per quasi l’80% da raggi gamma e per circa il 20% da neutroni.

I neutroni sono circa 10 volte più dannosi per il corpo umano in quanto entrano all’interno dell’organismo, danneggiando e modificando le strutture cellulari, con effetti immediati sul metabolismo attivo e sui processi di replica ed effetti a lungo termine a causa di danni latenti alla struttura genetica.

L’effetto delle radiazioni ionizzanti è misurato in rem, una unità indipendente dal tipo di radiazione.

Un’esposizione istantanea tra i 200 ed i 600 rem causa la morte nell’arco di due mesi nell’80% dei casi.

Consideriamo, come esempio di quanto sopra detto, le conseguenze sulla popolazione del lancio di una bomba nucleare da 150 kton, dieci volte più potente di quella di Hiroshima, su una grande metropoli come Cairo, la seconda città più popolata del continente africano dopo la nigeriana Lagos.

Cairo conta oltre 10 milioni di abitanti con una densità media di 22.500 abitanti per kmq nell’area urbana.

I risultati del calcolo sono i seguenti: fino a 3,71 km di distanza dall’ipocentro (l’ipocentro è il punto sulla cui verticale esplode la bomba) la pressione dell’onda d’urto supera il valore di sicurezza di 3,5 ton/mq; ustioni di terzo grado si hanno all’interno di un raggio di 5,23 km dall’ipocentro; la radiazione istantanea scende sotto il limite di 500 rem oltre 2,18 Km dall’ipocentro.

Limitandoci solo al primo degli effetti elencati, ne verrebbe interessata una superficie di 43,22 kmq che, moltiplicati per la densità abitativa (supposta omogenea), darebbe un numero minimo di vittime pari a 972.434, cioè circa l’1% della popolazione dell’intero Egitto.

Partendo da calcoli come questo che, ripetiamo, sono solo indicativi, si è ipotizzato che tutte le bombe nucleari esistenti possano essere sufficienti a distruggere la Terra.

Qui occorre distinguere fra la disintegrazione del nostro pianeta e l’estinzione del genere umano.

NagasakibombRiguardo al primo punto neanche tutti i 65.000 ordigni nucleari dei tardi anni ’80 avrebbero potuto causare distruzioni apprezzabili su scala planetaria in quanto dalle simulazioni è risultato che verrebbe rasa al suolo una superficie dell’ordine di qualche centinaio di migliaia di chilometri quadrati corrispondente a pochi percento della superficie abitata del pianeta, senza provocare fenomeni geologicamente rilevanti.

Se tutti gli ordigni nucleari in mano agli Stati Uniti ed alla Russia fossero fatti esplodere contemporaneamente in un solo punto, si verificherebbe uno spostamento dell’asse terrestre di circa 6 mm rispetto ai 25 mm che si ebbero con lo tsunami del 2004 nell’oceano indiano.

Diverso è il discorso per gli esseri umani e gli esseri viventi in generale, animali e piante, nel caso di una guerra mondiale tra potenze dotate di grandi arsenali atomici.

Gli studi dell’impatto di una guerra nucleare sull’equilibrio climatico del nostro pianeta sono iniziati negli anni ottanta del secolo scorso quando si temeva che potesse scoppiare un conflitto atomico tra Russia e Stati Uniti.

I risultati di questi studi hanno contribuito in modo determinante a convincere le maggiori nazioni coinvolte a sottoscrivere i trattati sul disarmo.

La modellizzazione dei vari effetti legati alle esplosioni nucleari ha condotto ad ipotizzare l’insorgere di un “inverno nucleare”: le particelle di materia carbonizzata dall’esplosione e dagli incendi, le polveri radioattive e comunque tutto ciò che è risucchiato verso l’alto dal moto convettivo all’interno del fungo atomico, potrebbe formare, sotto la spinta dei venti in quota, una sorta di barriera, di gigantesco scudo per i raggi solari, con un aumento significativo della temperatura in quota ed il conseguente raffreddamento dell’atmosfera sottostante.

Un effetto che, unito ad un aumento dell’oscurità, all’impoverimento dello strato protettivo dell’ ozono stratosferico ed alle radiazioni nucleari, porterebbe a sconvolgimenti climatici tali da compromettere tutto il nostro ecosistema.

Questi fenomeni si verificherebbero solo nel caso di bombardamenti su grandi agglomerati urbani dove gli effetti distruttivi della bomba nucleare possono creare enormi quantità di polveri e di ceneri anche radioattive, un effetto simile a quello che si è verificato durante e dopo le grandi eruzioni vulcaniche.

I risultati degli studi sull’inverno nucleare sono spesso divergenti. Ad esempio secondo alcuni calcoli lo scudo termico si formerebbe sulle zone temperate del pianeta, con differenti simulazioni invece si concentrerebbe sulla sola fascia equatoriale, inoltre la durata e l’entità di questi effetti è tutt’ora oggetto di analisi e discussioni.

E’ uscito recentemente un complesso ed articolato studio (3) che analizza l’impatto climatico globale di una guerra nucleare che si svolge su una base regionale limitata (si suppone, nell’articolo, tra India e Pakistan) dove vengono esplose 100 bombe atomiche da 15 kton ciascuna, su obiettivi civili.

Usando un sofisticato ed avanzatissimo modello dell’atmosfera (Community Earth System Model) che include anche la chimica atmosferica, le dinamiche degli oceani, il contributo delle zone ricoperte dai ghiacci e dalla vegetazione etc., i risultati della simulazione sono impressionanti considerando che si riferiscono ad un ipotetico conflitto localizzato e con testate nucleari di moderata potenza.

Le polveri provenienti dai materiali combusti dall’esplosione e dagli incendi successivi produrrebbero 5 milioni di tonnellate di fuliggine (black carbon) che, raggiunta la stratosfera, si andrebbero diffondendo globalmente causando un riscaldamento iniziale della stratosfera di oltre 70 gradi a 60-70 km di altezza che perdurerà con temperature sopra i 30 gradi per 5 anni.

Corrispondentemente si avrà un calo della temperatura sul suolo terrestre di un grado dopo un anno e di altri due gradi dopo cinque anni.

L’effetto schermante del black carbon tenderà a scomparire dopo circa 20 anni.

Il raffreddamento causerebbe una diminuzione delle precipitazioni (per la minore evaporazione delle superfici marine) del 9% con risultati disastrosi per l’agricoltura provocando un calo delle risorse alimentari col pericolo di carestie.

A sua volta il riscaldamento alle altitudini della stratopausa innescherebbe una serie di reazioni chimiche che porterebbero ad un abbassamento del livello di ozono stratosferico dal 20% al 50% sopra le aree popolate.

La diminuzione dell’effetto schermante dell’ozono sulla radiazione solare ultravioletta aumenterebbe l’indice UV del 30% con punte fino all’80% sulle medie latitudini con gravi conseguenze sulla salute delle popolazioni (aumento dei melanomi cutanei), sull’agricoltura e sull’ecosistema terrestre e marino.

Ad esempio è stato calcolato che una riduzione dell’ozono del 16% ridurrebbe il fitoplancton, la base della catena alimentare marina, del 5% causando una perdita di 7 milioni di tonnellate di pescato all’anno (4).

L’abbassamento della temperature al suolo provocherebbe una diminuzione di 0,5 gradi nei primi 100 metri degli oceani e causerebbero un aumento dell’estensione dei ghiacci sul mare e sulla terraferma.

Ciò a sua volta aumenterebbe la riflessione (albedo) della radiazione solare prolungando per oltre 25 anni lo stato di raffreddamento della superficie terrestre.

Quindi, oltre alla drammatica e terrificante perdita di milioni di vite umane sia al momento dell’esplosione che nei mesi ed anni successivi per le ferite riportate e i danni provocati dalle radiazioni nucleari, occorre considerare i cambiamenti climatici causati dall’inverno nucleare.

Questi effetti, perdurando nel tempo anche per qualche decennio, possono alterare, peggiorandole, le condizioni di vita di molte specie animali, rallentare e danneggiare la crescita ed il normale sviluppo delle piante e dei vegetali per uso alimentare riducendo i raccolti, col risultato di causare una crisi agricola mondiale e la conseguente diffusione di malattie e carestie.

Il genere umano non sarebbe certo condannato all’estinzione ma ad una sopravvivenza sempre più difficile e precaria.

L’ammonimento di Einstein resta ancora tragicamente profetico: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta sì: con bastoni e pietre”.

 

 Francesco Cappellani

1- Stefan Walker “Shockwave: Countdown to Hiroshima” Harper Perennial, 2006

2- Herbert P. Bix “ Hirohito and the making of modern Japan” New York, Harper Collins, 2000

3- Michael J. Mills, Owen B. Toon, Julia Lee-Taylor, Alan Robock “ Multidecadal global cooling and unprecedented ozone loss following a regional nuclear conflict” Earth’s Future, 1 April 2014

4- D.P. Häder, R.C. Worrest, H.D. Kumar “Effects of increased solar ultraviolet radiation on aquatic ecosystems” Ambio, 24, 1995