Marzo 1998: la pillola blu cambia tutto

Fu nel marzo del 1998 che la donna si vide privare della consapevolezza della propria attrattiva e dunque del trionfo sull’uomo.

A quella data, la società farmaceutica Pfizer mise infatti in commercio il nitrato di sildenafil, meglio noto come Viagra.

Prima d’allora e per millenni, la donna poté constatare sull’altro sesso gli effetti tangibili della propria suggestione.

Prima d’allora, nel momento dato, ella poteva illuminarsi di quell’olimpico, divino sorriso a fior di labbra, di quello sguardo compiaciuto, liquido, sensuale e ferino al tempo stesso.

Da regina che benignamente osserva il suddito ai suoi piedi.

Domato.

Dominato.

Suo.

Il Viagra ha cambiato tutto.

Mai più la donna potrà avere la cognizione d’aver risvegliato – per amore, per sex appeal, per fascinazione – l’estro dell’uomo che le sta di fronte e che un tempo avrebbe posseduto mentre ora ne è posseduta.

L’artificio dell’erotismo s’è perso.

I ferormoni si disperdono inerti.

Il lampo bianco di un seno, l’ombra fuggevole di quella che D’Annunzio chiamò, con immaginifica visione, l’ascella dell’aurora, si riducono, si umiliano ad essere elementi coreografici: fa tutto lui, il Viagra.

Questo per dire che se mai ci fossero – come, con pensiero dadaista, ipotizza il curatore di questo librino – regole attinenti all’uso e al consumo del genere femminile, esse sono andate a farsi benedire perché la donna pre 1998 non è la donna post 1998.

Di quella ‘pre’, che è stata tale per centinaia di migliaia di anni, del suo animo, qualcosa s’era finito per capire.

Di quella ‘post’, che è ‘post’ solo da una decina d’anni, nulla si sa se non che le è venuto a mancare lo strumento del rilevamento dell’efficacia delle proprie grazie.

Ergo, che è insicura.

Nei rapporti non superficiali con la femmina e la femminilità si procede dunque a tentoni, ci si inoltra nell’ignoto, forti solo di esperienze pregresse.

In quanto ‘utilizzatore finale’, come direbbe l’avvocato Ghedini, qualche dimestichezza posso vantarla anche se nel segmento mi considero solo un dilettante – e qui torna a fagiolo l’equivalente espressione francese di ‘amateur’ – un cultore della materia.

Però, ripeto, avendo goduto di un lungo periodo inframatrimoniale di scapolaggio, un certo numero di scapricciamenti me li sono tolti facendomi al contempo qualche opinione sul come maneggiare la materia.

Bizantina e romana.

Dal collo in giù, la femmina o è l’una o è l’altra.

Per romana intendo della Roma antica, dei Cesari.

Dunque, polposa, morbida, rotondeggiante e di comprovata opulenza di seno e di natica.

La femmina romana è quella dei marmi imperiali, quella cantata da Catullo: un lukumme, ghiotta e succulente delizia turca, la figurava Leonardo Sciascia; ‘bbona’ la dicono i romani d’oggi rivedendola in tutto e per tutto nelle fattezze, faccio un esempio, di una Sabrina Ferilli.

Al contrario, la bizantina è asciutta, sottile, sinuosa, di minuta ossatura e di poca polpa.

Snella, la potremmo dire, ma di una snellezza che nulla spartisce con quella guadagnata a suon di diete e di palestre, una snellezza armoniosa piuttosto che organica, aggraziata piuttosto che calibrata.

Dal collo in su vale il principio che non è bello quel che è bello, ma è bello ciò che piace.

C’è chi rincorre la perfezione dei lineamenti, chi è affatturato dal crine biondo e chi da quello bruno, chi dall’occhio ceruleo e chi da quello come un tizzo.

V’è chi si estasia per il collo lungo di una donna, altri che le danno della giraffa.

Se il volto è lo specchio dell’anima, ciascuno ha dell’anima (altrui) una propria visione.

Accade che essa si manifesti in un sembiante che ad altri occhi può apparire repulsivo, non a quelli che vi leggono – almeno in prima battuta – l’interiore bellezza di un bouquet di rose spirituali.

E’ tuttavia comprovato, me ne faccio garante, che la donna romana – qui ovviamente si procede per grandi linee senza far d’ogni erba un fascio – sia assai più duttile da amministrare; si dà per certo che ella manchi o sia priva quanto basta di quella “scaltrezza del martirio lento”, di quel “tedioso sentimento che fa le notti lunghe e i sonni scarsi” cui accenna Guido Gozzano cantando le lodi delle cameriste che “dan senza tormento più sana voluttà delle padrone” (che poi sarebbe, ma a noi non interessa perché è nostro intendimento volare alto, “un più sereno e maschio sollazzarsi”).

La bizantina è quella attesa da D’Annunzio: “quella che fustiga i miei spirti”, che “acerba ride e parla”; una che veste un leggero, impalpabile peplo giallo, una che “porta anello d’elettro e di cristallo alla caviglia”; una che “il suo capo sottilmente ordito piega, ove ferma un lungo ago l’intreccio, fulvo come i ginepri che sul lito morde il libeccio”.

E non so se mi spiego.

La bizantina non è mai di pronta beva: intriga l’animo, avvolge e sfugge, si dà e si nega con un fremito di labbro, con un’occhiata obliqua.

Pretende impegno, non consente che le cose vadano come devono andare, non lascia spazio ai giocosi imbambolamenti e agli abbandoni sornioni.

Vuole essere presa prima al cervello che al cuore, anche se quando il cuore alfine cede essa si dà – spiritualmente, intellettualmente, s’intende: qui si seguita a volare alto – con sorprendente intensità di fuoco e di fiamma.

Stessa marca, due modelli: anche se ciascuno dispone in proprio di una varietà di accessori, di distinte cilindrate, coppia massima, potenza in cavalli vapore, accelerazione, grip e velocità.

Oltreché – serve dirlo? – carrozzerie, ivi comprese le fuoriserie.

Valga dunque come unica istruzione per l’uso il maneggiare con cura.

Specie ora che la donna, per via del farmaco (dal greco ‘pharmakòn, veleno’) sopraddetto, si ritrova disorientata se non proprio sconcertata.

Occhio, però: non per tutte.

C’è altra alchimia che consente alla donna di saggiare sull’uomo la propria muliebre supremazia.

Un’arma temibile, da distruzione di massa dei cuori: il fascino.

Quell’influenza, quell’affatturazione che per dono divino poche elette, belle o brutte che siano, posseggono esercitandola sull’uomo in modo da sopraffargli il giudizio riducendolo a non essere più padrone di se stesso.

E per chi sa, per chi non si chiude per rozzezza d’animo o per analfabetismo spirituale alla lusinga, naufragare è dolce in tale mare.

Paolo Granzotto