La Svizzera vista da Luino, ‘città di frontiera’

D’acchito, il tema mi riporta ai miei anni verdi a Luino, dagli ultimi ’40 ai primi ‘70.

Ci sarebbero anche gli anni precedenti, la radio Monte Ceneri (o Beromunster), ascoltata da mio padre di nascosto, il primo cioccolato della mia vita arrivato di contrabbando, e i gruppi di persone sconosciute che per un certo periodo – probabilmente l’autunno inverno 1943 – ho visto passare per un sentiero davanti a casa diretti alla salvezza in Svizzera, i ricordi comico/avventurosi degli internati, su tutti l’inarrivabile racconto di Chiara sul suo soggiorno – brevissimo per la verità – in un campo di raccolta svizzero.

Ma c’era la guerra che, con la sua ottica terribile e distorta, rendeva tutto giustificabile.

Luino, città di frontiera, enorme stazione addirittura con un treno svizzero che tuttora arriva fino a metà con la corrente ‘svizzera’ appunto. Solo l’altra metà ha o aveva corrente italiana, con tensione diversa per i treni italiani.

La gente luinese aveva intensi contatti umani, anche se in genere di non eccelso livello, soprattutto con i ticinesi.

C’erano ad esempio i clienti della Mamma Rosa – personaggio reale oltre che letterario ne ‘Il piatto piange’ – la cui casetta rossa con le persiane verdi serrate (la Svizzera non aveva mai avuto bisogno, nel bene e nel male, di leggi Merlin), comportava sempre qualche macchina targata TI parcheggiata nelle via adiacenti.

La discrezione dei proprietari era vanificata dal tipo di auto, spesso grandi e vistose americane, consentite oltrefrontiera dal vilissimo prezzo della benzina e dai ‘franc’.

Poi, i corrispondenti elvetici dei contrabbandieri italiani, quelli che facevano trovare le bricolle confezionate appena al di là della rete.

Me ne ricordo uno in particolare con un soprannome tipo ‘il tordo’ (ul dörd) che periodicamente si vedeva in Guzzi per le strade od a confabulare nelle osterie.

Ancora, la maxistazione luinese in quegli anni era uno scalo importante per l’importazione di animali vivi, bovini soprattutto e cavalli.

Gli addetti italiani e svizzeri, ma c’erano anche olandesi e danesi, erano mandriani e contadini riciclati, le bettole presso la stazione – molto frequentata una con significativo soprannome ‘il moscaio’ – li vedevano protagonisti di epiche bevute.

Anche i frequentatori del mercato il mercoledì, pur non solo ticinesi, oscillanti nel comportamento tra l’ingenuo e il taccagno, tipica difesa di tutti i turisti nel mondo dalle furbizie dei mercanti, non miglioravano l’immagine degli ‘svizzeri’ presso i luinesi.

I ticinesi parlavano schiettamente e sempre il loro dialetto, praticamente identico al nostro salvo le varianti locali, ma in Italia parlare dialetto non ‘faceva fino’.

Da noi madri e maestre si prodigavano per l’estinzione della lingua degli antenati.

E si finiva per dire che gli svizzeri italiani erano solo una minoranza italica di serie B, che solo la neutralità, preservandoli dalle guerre, li aveva arricchiti e resi ancor più cafoni.

Correntemente, se si sentiva aria di fregatura, c’era chi proclamava “..non sono mica svizzero” o “mi prendi per uno svizzero?”

Si trattava di una di quelle cantonate che ogni tanto prendono le comunità come gli individui o forse anche di una difesa, un mettere avanti le mani, perché anche i meno avveduti capivano che la Svizzera e gli svizzeri, quali che potessero sembrare superficialmente, erano ben altro.

Era che noi non eravamo soltanto rimasti indietro per via delle guerre che loro non avevano fatto. Il divario era altro, era grande grande a tratti addirittura indefinibile.

Del resto l’ostentata certezza degli svizzeri come semplici ‘italiani arricchiti’ mostrava enormi crepe: oltre alla occasionale plebe puttaniera e contadino/contrabbandiera/turistica a Luino c’era una fiorente comunità svizzera costituita in primis dai dipendenti delle Dogane e Ferrovie svizzere.

C’era addirittura una scuola svizzera ed i dipendenti della Confederazione abitavano una autorevole ‘Casa Federale’ sul Viale della Stazione.

Un episodio significativo capitato ad un mio conoscente che lavorava all’acquedotto comunale: l’amministratore della suddetta ‘Casa Federale’, un distinto signore svizzero, aveva rilevato un errore nella bolletta dell’acqua ed aveva concordato con il mio amico impiegato una versione corretta, redatta seduta stante in bozza, salvo approvazione, per lo svizzero, della sua direzione di Berna.

Il giorno dopo l’utente elvetico era tornato in ufficio: aveva la bozza della bolletta vistata da Berna con la richiesta di un piccola correzione prima del pagamento.

L’ufficio italiano non aveva neppure ancora stampato definitivamente la fattura, mentre la copia svizzera – in tempi di carta e basta – nell’arco di ventiquattrore, una decina lavorative, aveva viaggiato da Luino a Berna e ritorno.

Il mio conoscente si era immaginato la stessa pratica in Italia, con una pratica che da vistare a Roma…

Svizzeri – tedeschi – erano stati nell’800 i fondatori delle grandi industrie tessili luinesi, dalle quali gli italiani avrebbero derivato le loro con il meccano tessile.

Un industriale svizzero aveva fondato la gloriosa ‘Banca Popolare di Luino’, poi anche ..di Varese, il cui centenario ha visto un volume celebrativo curato da Piero Chiara, azionista e appassionato estimatore.

Gli ultimi amministratori, quelli dello sputtanamento definitivo, erano tutti buoni italiani.

Avrei molti altri ricordi, anche familiari, molto interessanti e cari per me, ma credo sia inutile tirarli fuori; le conclusioni, a livello di microstoria, sono analoghe alla storia della bolletta.

Ormai da una vita la Svizzera, come nazione, è un mio sorvegliato speciale.

Ho fatto sulle montagne svizzere le mie migliori gite e sciate, da anni, fortunosamente – per via dei ripetitori – sono un fedele spettatore della TV svizzera, assisto ad una politica, magari un po’ noiosa, ma dialettica restando seria e corretta, la piena occupazione imperterrita da anni, il deficit nei bilanci – pubblici o privati – assolutamente eccezionale e comunque dichiarato correttamente e chiaramente corretto.

Il territorio preservato come una risorsa, il PIL che mantiene la crescita in tempi di crisi mondiale, il debito pubblico a livello di inesistenza.

E’ inutile elencare, sono pur sempre un italiano, ogni tanto anche orgoglioso si esserlo, in un tempo lontano la mia famiglia ha consapevolmente scartato l’ipotesi di ‘elvetizzarsi’ e non se ne è pentita.

Però, la Svizzera, la Svizzera…

Silvio Valisa