Il piacere del non viaggiare

C’è quel che si impara studiando e quel che si impara vivendo.

Poi c’è quel che non si impara né studiando, né vivendo, perché forse fa parte della nostra natura ed è inscritto in noi, con altri pregi e altri difetti genetici, già quando nasciamo.

Io non voglio viaggiare e mi succede, se mi trovo con gli entusiasti, gli appassionati, i desiderosi del viaggiare, di sentirmi l’isolata espressione di una fisicità e di una psichicità indolenti e pigre, di una identità che non vuole viaggiare, non vuole andare in giro e non vuole farsi portare in giro.

Con schiettezza devo dire che questa negativa volontà non è frutto dell’esperienza o delle scelte maturate nel percorso della vita.

L’avevo già radicata nella natura infantile, se ricordo quanta resistenza mettevo, aggrappandomi alla porta o al cancello del giardino, quando mamma mi voleva portare con sé uscendo di casa.

Pensandoci bene, credo che realmente siano poche le persone così convinte del piacere di non viaggiare, come lo sono stato io dalla prima età ininterrottamente fino ad ora.

Godo della tranquillità domestica, non mi seduce l’idea di luoghi diversi da raggiungere e davvero m’indispone la necessità del fare e disfare le valigie, adeguarsi agli orari, presentarsi a “cechin” e “cecaut”, per non parlare delle vaccinazioni preventive in vista di mete esotiche.

Io non voglio andare per il mondo.

In realtà, ora ci sono molti che vanno per il mondo senza viaggiare.

Sono la maggior parte di quanti si dirigono verso i continenti lontani e davvero si può dire che si spostano, non che viaggiano.

Non è viaggiare lo star seduto qualche ora in una poltroncina di aeroplano.

Si viaggia a piedi, in bicicletta, in motocicletta, in automobile, in torpedone, in treno o in barca, non in aereo.

E in nave?

Ci rimangono i traghetti, ma corrono anche loro, navi “veloci”.

Il viaggiare dei transatlantici, con le loro comode e superbe prime classi, veri alberghi di lusso, è un ricordo ormai lontano.

Ora ci si imbarca sulle navi da crociera, villaggi turistici, affidati agli animatori del divertimento.

Quindi c’è anche un farsi portar di qua e di là senza il gusto e lo spirito autentico dell’Arte di viaggiare di Francis Galton (1855): il viaggio è un piacere in se ed è importante non perseguire ansiosamente una meta, perché si rischia di non godere di un paesaggio, d’osservare con attenzione le abitudini di vita locali, di cacciare…

Si viaggia per conoscere, per curiosità di sapere o semplicemente di vedere?

Una volta forse si viaggiava anche per conoscere, per sapere e per vedere.

Ma ora si parte perlopiù per il desiderio di uscire dalla propria quotidianità.

Una meta vale l’altra, un continente vale l’altro, basta andarsene per qualche giorno.

Se c’è un viaggiare fatto per passione, c’è anche quello irrobustito da motivi diversi nella immagine di un senso d’insoddisfazione che esprime la rottura con il piano della propria esistenza.

Si viaggia per allontanarsi dal vivere di ogni giorno.

Per mettere momentaneamente in silenzio il vivere di ogni giorno.

Ma poi inevitabilmente si rientra e si aspetta un prossimo viaggio, esigenza integrativa o sostitutiva della monotonia che non si sa in che altro modo superare.

Ma un uomo riflessivo può trovar modi più intelligenti per sottrarsi alla propria monotonia.

A chi recita solennemente la frase di Pompeo: navigare necesse est, vivere non, si può opporre la convincente saggezza dell’esametro di Orazio caelum non animum mutant qui trans mare currunt.

All’infanzia della nostra generazione, formata sulla buona creanza dei sillabari scolastici o meglio sui sillabari scolastici della bontà e della buona creanza, si spiegavano le fatiche delle persone costrette ad andare, il cammino dei pellegrini, il fuggire dei profughi, il sofferto destino degli emigranti, i rischi degli esploratori, dei soldati, dei missionari, nonché la povera stanchezza dei nostrani commessi viaggiatori, figura oggi sbiadita e quasi dimenticata della storia di appena ieri.

Allora il viaggiare era per necessità ed era quasi sempre scomodo.

Nel mondo preoprototuristico l’unico viaggio di piacere era, per chi se lo poteva permettere, il “viaggio di nozze”, esperienza con cui si archiviava ogni ulteriore progetto di spostarsi da casa.

Per i giovani maschi c’era il treno che li portava in caserma.

E poi basta.

Ma ora il turismo, dopo anni di crescita lenta e riservata, ha preso vita esuberante e rigogliosa, si è veramente dilatato nei significati e nelle espressioni.

Il corpo del turista è una sfida pronta, con memorie operative di volta in volta messe alla prova, verso traguardi facilmente raggiungibili.

Abbiamo gli appassionati pluri-viaggiatori di tante destinazioni, che vogliono praticare il panorama universale, compresi i campioni superlativi avidi di orientarsi senza incertezze verso le mete più rare.

Ma anche al turismo facile e seducente si può opporre uno sdegnoso rifiuto.

Ci sono approdi attraenti ignorati dalle agenzie di viaggio.

Si può stare comodi in casa come ci era stato spiegato da Xavier De Maistre con il suo affascinante Viaggio intorno alla mia camera (1795): quarantadue giorni di arresto domiciliare trascorsi al riparo da “inquietudini e stranezze di uomini e fortuna”, in una esplorazione continua dell’ambiente, delle pareti, degli angoli, dei mobili, dei soprammobili, con ghirigori di immaginazione, usando persino regole scientifiche per misurare la latitudine e la longitudine.

E ne fu soddisfatto, se appresso pubblicò la Spedizione notturna intorno alla mia camera.

Comunque si era sempre potuto conoscere il mondo anche attraverso le fatiche degli altri.

Certi viaggi letterari sono stati per noi una tappa obbligata di istruzione (Ulisse, Enea, Dante, i viaggi di Simbad, di Gulliver e pure nei Promessi Sposi si viaggia assai).

Ma le biblioteche son ricche di libri di viaggi veri, libri destinati una volta a chi non avrebbe mai viaggiato, i buoni cittadini e le buone signore benestanti del tempo andato.

Personalmente, sono anch’io circondato da tanti libri di viaggi, contento proprio del leggere senza viaggiare, anzi adagiato lettore poltronesco.

Lettore e non viaggiatore, perché non è anfibologico il coesistere di gusto per queste letture e disamore, disinteresse o diffidenza per il viaggiare.

Sdegnoso degli inviti ad esplorare e curiosare personalmente diversità geografiche ed antropologiche, son ghiotto di libri dei viaggi degli altri e mi son formato pian piano una bibliotechina dell’antiviaggiatore: lettere odeporiche, itinerari, corografie, vecchi giornali illustrati di viaggi.

Sono letture affascinanti.

In molti alimentano fantasie emulatrici, ma in me svegliano il compiacimento di una “partecipazione” sedentaria, riparata da rischi traumatici e scomodità.

Ho sempre dichiarato ammirazione per quel giovane varesino che, in sosta alla stazione di Mestre sul treno che lo riportava a casa dopo la Grande guerra, al fratello che gli proponeva di visitare Venezia rispose deciso: non son curioso, trionfale dichiarazione, capolavoro dell’antiviaggiatore.

E dunque riassumiamo: non amando il turismo, da giovane dovevo giustificarmi e spiegare.

Ora, invece, posso invocare l’esimente dell’età, se è vero che c’è un momento per ogni dimensione delle umane attività e la sapienza antica suggeriva agli uomini maturi o anziani di non darsi a quei cimenti nei quali possono invece intrattenersi naturalmente i giovani.

Paolo Mantegazza suggeriva agli anziani di disporre e regolare convenientemente le proprie abitudini quotidiane, con una raccolta di aforismi in cui ognuno poteva trovare il sugo di molta esperienza.

In frasi concise, più di cento anni fa, raccomandava un’alimentazione prudente, le precauzioni contro il freddo, assai dannoso agli anziani, come è dannoso il mutar di climi e di abitudini, perché i vecchi sono, a suo parere, come dei fiaschi toscani che viaggiano senza paglia; possono anche andare lontano, ma devono stare attenti agli urti ed alle scosse.

I vecchi che desiderano diventare vecchissimi, diceva, faranno bene a cominciare fin da giovani a vivere come vecchi.

Giugi Armocida