Riccardo Muti

Di seguito, il testo della mail ricevuta il 29 dicembre 2013 da Paolo Isotta

«Gentile Professore,

del testo da Lei inviatomi avevo dimenticato addirittura l’esistenza.

Può usarlo a condizione che corregga alcuni grossolani errori. “mozzarella” per “mazzarella”; “a Napoli” per “da Napoli”; “craccum” per “vacuum”; “nideretur” per “uideretur”; “Storace” per “Starace”.

A ogni modo Le mando il mio libro terminato in questi giorni; uscirà a settembre.

Quanto detto qui su Muti non annulla quanto scrivevo, in particolare intorno all’odio da Milano per lui nutrito; e s’è visto da come è andata a finire.

Che per Muti è stata una grazia di San Gennaro; altrimenti non avrebbe, tra l’altro, avuto Chicago.

Buon anno!

Paolo Isotta»

 (Ovviamente, ho provveduto alle indicate correzioni) – MdPR

* * *

Sono napoletano, ma l’odiosa Milano mi ha dato di che vivere dignitosamente da quando avevo ventitré anni e fin qui non l’ha smesso: dunque, sono ventinove anni ininterrotti, a prescindere da qualche incidente di percorso che di tanto in tanto minaccia di riproporsi.

Sono napoletano, ma l’odiosa Milano mi ha dato alcuni fra i diletti amici.

Sono napoletano ma non seguo in questo l’avviso di Benedetto Croce, e non solo la Colonna infame, gli stessi Promessi sposi, mai disgiunti dal Fermo e Lucia rappresentano mia costante lettura.

Nel supremo romanzo Manzoni dona, sotto una forma caricaturale dietro che si cela tutta la sua perfidia, un insegnamento fondamentale: esser difficilissimo fare il bene a chi non vuol riceverlo, essere infinitamente più facile fare a un taluno male che bene.

Stiamo parlando, tutti l’avranno già riconosciuto, di donna Prassede, immortale come qualsiasi personaggio di Manzoni.

Paragonare i rapporti di Riccardo Muti con Milano a quelli di donna Prassede con le famiglie e i monasteri che intendeva, a modo suo, beneficiare, sarebbe, come si dice a Napoli, “sfottere ‘a mazzarella di San Giuseppe”: ossia, italianamente, spargere sale su una piaga aperta irridendo per giunta al ferito.

Riccardo Muti
Riccardo Muti

Se prendiamo l’insegnamento manzoniano facendo astrazione dall’esempio che lo incarna, entriamo allora in una vicenda complessa, con aspetti psicologici ora dolenti, ora torbidi, ora inspiegabili, e questo comporta anche il tentativo di penetrare in una personalità chiusa a un tempo e indifesa qual è quella del maestro Muti.

Riccardo Muti e io siamo divisi circa da un decennio, ma abbiamo subito un destino comune, beninteso nei limiti nei quali è lecito accostare una formica e un gigante.

Provenienti dalle stesse scuole, ci siamo fatti ambedue emigranti: egli, dapprima verso Milano, che dopo Molfetta e Napoli è la sua terza patria per l’aver trovato colà due Maestri che completarono la sua formazione, Antonino Votto e Bruno Bettinelli, poi verso Firenze, poi verso Filadelfia, per tornare a Milano, sua patria artistica definitiva.

Muti doveva andarsene a Napoli: come dice Alessandro Scarlatti parlando del figlio Domenico, e sì che Napoli allora era ben altra cosa, non è nido per un’aquila simile.

Con immenso dispiacere occorre dire ch’è vero: una volta che un aquilotto apre le ali per mostrarsi uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, Napoli è troppo stretta per lui.

Al massimo, può divenire il luogo dei ritorni, che proprio pungente desiderio di ritorno significa ‘nostalgia’.

Io dovetti andarmene da Napoli semplicemente perché col mio lavoro la mia città non mi avrebbe fornito mai di che campare, fossi pur Eduard Hanslick.

Ebbi il colpo di fortuna di diventare il critico musicale del più importante quotidiano nazionale, impari al compito ma favorito dal confronto: natura horret vacuum e qualcuno doveva pur farlo.

S’immaginerà che fra due esuli parlanti la stessa lingua e circondati da un ambiente ostile, che questa è la verità effettuale, non tardino a stringersi legami di solidarietà, fors’anche di amicizia.

Le cose sono molto più complesse.

Ognuno deve recitare fino in fondo la parte che il destino gli assegna: altro insegnamento sommo ci viene da Ottaviano Augusto sul letto di morte, il quale, vuole Svetonio, domandò ai veglianti “ecquid iis uideretur mimum uitae commode transegisse”, se, a loro credere, avesse ben recitato la parte toccatagli nella commedia umana.

Allora è possibile solo un’amicizia più desiderata che sperimentata, più distante che prossima, non senza dissensi umani e artistici, ma con la regola fondamentale che nella commedia le parti non sono interscambiabili.

Il nostro rapporto è prudente, pieno di riguardi reciproci, rado.

Resta il fatto che, anche solo per il suo essere il Direttore Musicale della Scala, Muti è il direttore d’orchestra del quale debbo occuparmi di più, indipendentemente da personali elezioni.

Tanti anni di spremitura del cervello per seguirlo nelle intenzioni musicali e nella loro realizzazione tecnica hanno prodotto in me, coll’assidua osservazione anche solo del gesto direttoriale e del suo infinitesimo variare verso la perfezione, una conoscenza di Muti musicista forse superiore a quella di tanti altri.

Fatalmente, da questa è nata anche una presunta conoscenza dell’uomo.

Dico presunta giacché si basa solo sulla mia esperienza, non essendovi possibilità di prova contraria.

La mia conoscenza contrasta con i luoghi comuni circolanti, specie a Milano, su di lui.

Milano non lo ama: da lui ha molto più ricevuto che non l’abbia ricompensato o almeno che gli abbia riconosciuto l’immenso contributo da lui dato alla sua cultura.

Milano lo giudica apodittico, arrogante, ignorantello.

Forse non lo rispetta nemmeno fino in fondo: e con questo mostra quanto cafoni siano i salotti che decretano chi è buono e chi è cattivo.

Muti non fa molto perché gli altri cambino di parere.

Ma siamo al punto: non perché sia catafratto nelle sue certezze, come dà a vedere il suo volto sempre oscurato quando si presenta in pubblico, il suo fiero alzar il mento, alla Starace: al contrario, perché è un uomo solo che di questo soffre assai nel suo carattere fondamentalmente timido.

Le sicurezze sono sue in punto tecnico, quando lavora con la sua orchestra, da lui portata a essere una delle prime del mondo, quando lavora, dico, nelle prove e nelle esecuzioni.

Ma un direttore non può fare questo mestiere senza il requisito dell’autorità, innata o acquisita.

La bacchetta direttoriale è l’ultimo emblema dello scettro regale dotato in qualche modo ancora d’una funzione.

Il direttore d’orchestra ‘amico’ è compagnone, che magari accetta con i professori un ‘dialogo democratico’, è utopia degli anni Settanta.

Quando scende dal podio, Muti riceve infiniti baci della pantofola da una folla che si assiepa per essere ammessa al so camerino; egli ben sa che la gran parte di tali baci sono insinceri.

Quando la coda s’è dissolta, si ritrova solo con la sua timidezza e le sue insicurezze, che a volte producono anche errori e ingenuità nelle valutazioni umane, fonte, a loro volta, di sofferenze ulteriori.

Lo conoscessero meglio: quest’uomo non fa altro che studiare e dirigere, con un’autodisciplina ancor più incredibile se si pensa a quanti anni abbia, a quanto sia importante, a quanto sia, fuori di Milano, considerato un divo.

Nella professione, non s’è mai ‘lasciato andare’, come pur accadeva a grandissimi suoi colleghi, per esempio Leonard Bernstein.

Perciò il primo sentimento che si deve provare di fronte a lui è un profondissimo rispetto.

Pochi hanno dato alla musica tanto come lui.

E quanto alla sua cultura, la sua brillantissima maturità classica, conseguita nel più severo dei licei napoletani, dovrebbe far riflettere gl’incauti.

E direi che la gran parte degli errori di valutazione su di lui nascono innanzitutto da una grossolana incomprensione culturale.

A Milano lo considerano direttore d’Opera per eccellenza, e in particolare direttore verdiano, e gl’imputano una difficoltà genetica nel comprendere e trasmettere senso e forma della grande musica classica, ch’è tedesca e sinfonica.

Ma per chi si sia formato presso i grandi della scuola napoletana, che deriva direttamente da Sigismondo Thalberg e da Martucci, il linguaggio dei classici è quello nativo, spontaneo; non è un caso che Bach, Wagner, Brahms sortano dalla sua bacchetta respirando con assoluta spontaneità.

Non sono una conquista della maturità, come a vari, anche grandi, direttori italiani, capita.

Laddove la sintesi, la semplificazione a volte eccessiva della via musicale per giungere alle scorciatoie dell’‘effetto’ teatrale, proprie di Verdi, gli causano cautele, lo inducono a percorsi accidentati, ad aggiramenti, proprio perché questo linguaggio lui se lo deve ogni volta conquistare.

Altri lo posseggono per dono spontaneo, come caduto dal cielo; altri, ma non quelli che i milanesi additano quali suoi rivali, veri o presunti.

Vorrei ricordare che nessuno aveva seguito a Milano l’insegnamento di Francesco Siciliani, Maestro sommo e, anche in questo caso, Maestro prima a lui, poi a me.

L’esplorazione di tutto il mondo ferrigno, marmoreo, pieno di segrete ferite, del Neoclassico in musica: Cherubini, Spuntini, Salieri, non a caso coltivati all’estero più che nella loro patria.

Poi, e qui Muti non ha maestro, un Mozart che da solo è già entrato nella Storia, essendo un punto in fatto, forse comprensibile tra qualche decennio, che nessuno, nemmeno Karajan, ha diretto come lui Le nozze di Figaro, il Don Giovanni, poi la più enigmatica Opera della cosiddetta ‘trilogia’, Così fan tutte; e occorre aggiungere l’Idomeneo e La clemenza di Tito, capolavori nei quali i compatrioti di Mozart non hanno mai avuto sufficiente fede (Oggi possono parere parole assurde, ma si provi a riportarsi col pensiero solo a trent’anni fa).

Tutto questo, secondo cicli organici che si vorrebbe ancor più organicamente pensati, puro dono a Milano.

Fuor dalla retorica ufficiale e degli Ambrogini d’oro Milano, oggi come oggi, s’è dimostrata impari, lo ripeto, rispetto al dono.

Il credito difficilmente si colmerà, ma il destino di Muti e quella della Scala sembrano indissolubili.

Chi non ha difetti?

Anche Muti ne ha.

Non racconterò di quelli che ai miei occhi sono tali quando non sarò più il critico musicale del Corriere della Sera: questa è libertà da cameriera licenziata.

Cerco di farlo nell’ambito del mio lavoro, secondo l’obiettività e l’imparzialità più strette: quindi, prescindendo, fin dov’è possibile, dal fattore umano.

So ch’egli se ne duole; talvolta, lo disse con franchezza.

Ma ognuno deve obbedire al suo destino: il mio è quello della controparte istituzionale di Riccardo Muti.

Paolo Isotta