Ma dove va la critica teatrale?

Perché ci siamo ridotti così?

Dove è cominciato a mancare l’anello di congiunzione di una tradizione che veniva da lontano e che aveva dato i suoi frutti?

In questo stropicciato mondo che é il nostro, di noi teatranti, fatto di fatiche, di passioni sconvolgenti, di furori eroici e di amarezze inevitabili, che funzione ha, oggi come oggi, la critica teatrale, quando dai grandi maestri ci si imbatte in presuntuosi scribacchini con la prosopopea di emettere sentenze senza fare ciò che i maestri stessi hanno fatto: hanno semplicemente incominciato, amando il teatro e chi lo fa.

Vogliamo parlarne?

Con tranquillità, certo, ma con determinazione.

Possiamo non perdere la fiducia nella voce del critico?

Perché, attenzione, è già in atto questa sfiducia.

Pericolosamente.

Capita sovente e sempre più spesso di vedere cartelloni di stagioni teatrali curati da critici che impongono anche le loro traduzioni di testi, o peggio, si favoriscono le loro traduzioni “per convenienza”.

E’ possibile poi, credere alle loro recensioni che parlano di spettacoli che loro stessi hanno proposto, fatti magari da amici, amichetti e conventicole varie?

Perché si deve accettare silenziosamente questi autoerotismi di convenienza?

Ma come, dico io, potremo credere a ciò che si legge?

Ma dove sono gli eredi dei Bertani, dei De Monticelli, dei Ronfani o dei Mario Apollonio, per dirne alcuni che fecero del loro mestiere una missione, un credo?

Allora si stava alzati la notte, dopo una “prima” per correre in edicola e leggere le loro recensioni e trarne insegnamento, noi attori, registi e uomini di teatro tutti; ma credevamo a priori alla loro onestà e intendimenti.

La loro autorevolezza e pulizia e onestà intellettuale ti incuteva rispetto.

Ma ora?

Si assiste a gente prezzolata che non solo prepara cartelloni e traduzioni ma crea conventicole, inventa premi a go-gò, stabilisce se quel tal attore va innalzato, segnalato o ignorato per pura convenienza o cattiveria; e magari in accordo con registi anche autorevoli, so quel che dico, che per rivendicazioni si sono venduti l’anima.

Il bagaglio di conoscenza e di memoria che un critico vero, “onesto”, deve avere, ha fatto posto a giochetti e inciuci.

Tutto questo fa male al Teatro.

Lo fa agonizzare, lo svilisce e lo svuota proprio della sua funzione etica, morale, educativa che il teatro ha per sua natura e deve avere.

Quello che era la funzione della critica di formare nuovo pubblico, lucido, attivo, creare spettatori pensanti, si riduce invece a perfidie da comari da pianerottolo o da beghine saputelle.

E noi teatranti a testa bassa, stiamo zitti zitti, sperando di non essere toccati da simili giudizi?

C’è una responsabilità della critica se il teatro è sempre più preda di manie musicali e sempre meno di testi e di autori che ancora hanno cose da dire.

Il disimpegno che imperversa sempre di più e che abbrutisce il panorama teatrale, è l’opposto di ogni etica.

Se il pubblico volesse solo quel tipo di rappresentazione, musical e divertimento, non si spiega allora l’enorme afflusso di pubblico che ogni anno accorre a Siracusa per assistere a tragedie antiche di autori come Sofocle o Euripide.

La media sono otto-diecimila persone a sera e lo dico perché ci sono stato più volte come attore interprete.

Non voglio polemizzare sterilmente a vuoto, ma dico “l’unica polemica nel Teatro, nasce facendo teatro”.

Il resto lascia il tempo che trova.

Rassegniamoci a vedere svuotata di significato la funzione del critico, oppure facciamo in modo che le cose cambino.

Ma non arrendiamoci mai.

Il punto sta qui: nell’aver perduto la “coscienza” della critica.

Oggi si assiste passivamente al compromesso, si vuole la facile vittoria.

A chi affideremo il futuro del Teatro?

Qualcuno mi ha consigliato di non espormi in prima persona, rischiando furori avversi.

Rispondo con una citazione da “Spoon River” : “…e’ molto lodato il gesto di quel ragazzo spartano che nascose il lupo sotto il mantello e si lasciò divorare senza un lamento.

E’ più coraggioso, io dico, strapparsi di dosso il lupo e combattere apertamente, magari per strada, tra polvere e urla di dolore.

La lingua sarà magari un organo ribelle, ma il silenzio avvelena l’anima.

Mi biasimi chi vuole.

Io sono contento così”.

Antonio Zanoletti