La paranoia del «declino americano»

Noam Chomsky intervistato da David Barsamian

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L’intervista che segue è stata pubblicata sull’almanacco di Libertaria “L’ANARCHISMO OGGI  UN PENSIERO NECESSARIO”. Libertaria è una pubblicazione diretta da Luciano Lanza che ringrazio per la cortesia. Chi lo desideri, puo’ leggere il mio intervento su Noam Chomsky su www.maurodellaportaraffo.com. Un’ultima annotazione: le opinioni di Carothers e di Morgenthau riprese da Chomsky risalgono necessariamente alla teoria del ‘Destino manifesto’ di John L. O’Sullivan. – MdPR

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D. Sulle risorse energetiche del Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno ancora lo stesso controllo che avevano in precedenza?

R. I principali paesi produttori di energia sono tuttora fermamente controllati da dittature appoggiate dall’Occidente.

Il progresso fatto dalla Primavera Araba, quindi, è limitato, ma non irrilevante.

Il sistema dittatoriale controllato dall’Occidente sta venendo meno, già da un po’ di tempo.

Per esempio, rispetto a cinquant’anni fa, le risorse energetiche (che rappresentano la principale preoccupazione dei pianificatori americani) sono per la maggior parte nazionalizzate.

Noam Chomsky
Noam Chomsky

Ci sono tentativi continui di invertire tale situazione, ma finora non hanno avuto successo.

Prendiamo l’invasione dell’Irak.

Per chiunque non sia un ideologo di parte, è chiaro che l’invasione non era motivata dal nostro amore per la democrazia, ma dal fatto che l’Irak è la seconda, o forse la terza, maggiore fonte di petrolio del mondo, e sta proprio al centro della principale parte del mondo che produce energia.

Non si può dirlo, però, perché è considerata una teoria cospirativa.

In Irak, gli Stati Uniti sono stati seriamente sconfitti dal nazionalismo iracheno, in gran parte attraverso una resistenza non violenta.

Potevano ammazzare gli insorti, ma non gestire mezzo milione di persone che scendevano in strada a dimostrare.

Passo dopo passo, l’Irak è riuscito a smantellare i controlli attuati dalle forze di occupazione.

Nel novembre 2007 è cominciato a essere chiaro che gli Stati Uniti facevano fatica a raggiungere i propri scopi.

Scopi che, è interessante notare, erano esplicitamente ammessi.

Nel novembre 2007 l’amministrazione Bush se n’è uscita con una dichiarazione ufficiale sulla natura che qualunque accordo con l’Irak avrebbe dovuto avere.

Due erano i requisiti fondamentali: uno, che gli Stati Uniti rimanessero liberi di condurre operazioni militari dalle proprie basi, che sarebbero state mantenute; due, che fosse «incoraggiato il flusso d’investimenti stranieri in Irak, specialmente quelli americani».

Nel gennaio 2008, George Bush l’ha ancora chiarito in una delle sue dichiarazioni.

Un paio di mesi dopo, di fronte alla resistenza irachena, gli Stati Uniti hanno dovuto cedere.

Il controllo dell’Irak sta venendo meno sotto i loro occhi.

In Irak c’è stato il tentativo di reinstallare con la forza qualcosa di simile al vecchio sistema di controllo, ma il tentativo è fallito.

Da un punto di vista generale, la politica estera americana è sempre la stessa, fin dal tempo della seconda Guerra mondiale.

È la capacità di attuarla a essere in declino.

 

D. È un declino causato da debolezza economica?

R. È causato in parte dal fatto che il mondo sta cambiando.

I centri di potere stanno cambiando.

Alla fine della seconda Guerra mondiale, gli Usa erano all’apice assoluto del proprio potere.

Possedevano metà della ricchezza mondiale e tutti i loro concorrenti erano distrutti, o seriamente danneggiati.

Avevano una posizione di sicurezza inimmaginabile e potevano fare piani per governare, di fatto, il mondo.

Il che non era irrealistico, allora.

 

D. Era la cosiddetta pianificazione di “Grande Area”?

R. Sì.

Subito dopo la seconda Guerra mondiale, George Kennan, che nel Dipartimento di Stato era a capo dello staff per la politica di pianificazione, ha definito (con altri) i dettagli e questi sono stati messi in atto.

Quanto sta accadendo oggi in Medio Oriente e in Africa settentrionale, e anche in America latina, è già accaduto alla fine degli anni Quaranta.

Il primo successo della resistenza all’egemonia americana risale al 1949, quando si è avuto ciò che, significativamente, è stato definito come la «perdita della Cina».

È un’espressione interessante, mai messa in discussione.

C’è stato un gran dibattito per stabilire chi fosse responsabile di questa perdita.

È diventato un tema interno molto importante.

Era un’espressione interessante perché si può perdere solo ciò prima si possedeva, il che era dato per scontato: la Cina è nostra, e se va verso l’indipendenza, allora la perdiamo.

Poi sono venute le preoccupazioni per la «perdita» dell’America latina, del Medio Oriente o di altri paesi, tutte basate sul presupposto che il mondo è nostro e qualunque cosa indebolisca il nostro controllo è per noi una perdita, e dobbiamo chiederci come fare a recuperarla.

Oggi, se leggiamo la stampa sulla politica estera, oppure, per divertirci, ascoltiamo i dibattiti repubblicani, sentiamo chiedere «Come prevenire altre perdite?».

Il fatto è che la capacità di conservare il controllo è nettamente diminuita. Fino al 1970, il mondo era ancora (come si diceva) tripolare, economicamente parlando, con un centro industriale basato sugli Stati Uniti, nelle Americhe, un centro industriale basato sulla Germania, in Europa, di dimensioni pressappoco paragonabili, e un centro industriale basato sul Giappone in Asia, che era la parte del mondo con la crescita più dinamica.

Da allora l’ordine economico globale è molto cambiato.

Sicché è più difficile mettere in atto la nostra politica, anche se i principi che la orientano sono sempre gli stessi.

Prendiamo la dottrina Clinton.

Diceva che gli Stati Uniti hanno il diritto di fare ricorso unilateralmente alla forza per assicurarsi «accesso incondizionato a mercati-chiave, fonti energetiche, risorse strategiche».

Il che va ben aldilà di qualunque dichiarazione fatta da Bush.

Ma erano parole sobrie, non arroganti e irritanti, sicché non hanno provocato grandi proteste.

La convinzione che quel diritto sia tuttora valido continua ancor oggi.

Ed è parte della cultura intellettuale.

Subito dopo l’assassinio di Osama Bin Laden, in mezzo a tutti gli elogi e gli applausi, solo poche voci critiche si sono fatte sentire, per mettere in discussione la legalità di quell’azione.

Secoli fa, esisteva qualcosa come la presunzione d’innocenza.

Se un sospetto è catturato, resta tale finché non ne sia provata la colpevolezza.

Deve avere un processo.

È un elemento centrale della legge americana, le cui origini risalgono alla Magna Carta.

Così, si sono levate un paio di voci a dire che forse non era giusto ribaltare la base stessa della legislazione anglo-americana.

Il che ha prodotto una quantità di reazioni furiose, delle quali le più interessanti sono state, come al solito, quelle della porzione dello spettro orientata a sinistra.

Matthew Yglesias, commentatore left-liberal molto conosciuto e rispettato, ha scritto un articolo in cui metteva in ridicolo quelle opinioni.

Le ha definite «straordinariamente ingenue», sciocche.

Poi ha spiegato perché.

Ha detto che «una delle funzioni principali dell’ordine istituzionale internazionale è precisamente legittimare l’uso di forza militare letale da parte delle potenze occidentali».

Ovviamente non intendeva la Norvegia.

Intendeva gli Stati Uniti.

Quindi, il principio sul quale si basa il sistema internazionale è che gli Stati Uniti hanno il diritto di usare la forza a proprio piacimento.

Dire che gli Stati Uniti violano la legge internazionale, o qualcosa del genere, è straordinariamente ingenuo, assolutamente stupido.

Per inciso, ero io l’obiettivo di quelle accuse, e sono ben felice di dichiararmi colpevole.

Ritengo che la Magna Carta e la legge internazionale meritino un po’ di attenzione.

Dico questo solo per chiarire che nella cultura intellettuale, anche in quella cosiddetta progressista, i principi fondamentali non sono cambiati granché.

È la capacità di metterli in atto che si è ridotta significativamente.

È questo il motivo di tutto l’attuale dibattito sul declino americano.

Guardate il numero di fine anno di Foreign Affairs, che è la principale testata giornalistica dell’establishment.

In copertina riporta, a caratteri cubitali, la domanda «L’America è finita?».

È la lagnanza standard di quanti ritengono di dover possedere tutto.

Se uno ritiene di dover possedere tutto e perde qualcosa, è una tragedia.

Come se il mondo crollasse.

L’America è finita?

Abbiamo cominciato a «perdere» la Cina, poi il Sudest asiatico, l’America del Sud.

E forse perderemo il Medio Oriente e i Paesi nordafricani.

L’America è finita?

È una specie di paranoia, la paranoia del super ricco e del superpotente.

Se non ha tutto per sé, è un disastro.

 

D. Il New York Times descrive il «fondamentale dilemma posto dalla Primavera Araba: come conciliare certe tendenze americane contraddittorie, cioè l’appoggio ai cambiamenti in senso democratico, il desiderio di stabilità, la preoccupazione che l’Islam divenga una forza politica potente».

Il Times identifica tre obiettivi Usa.

Tu cosa ne pensi?

R. Penso che solo gli ultimi due siano esatti.

È vero che gli Stati Uniti hanno a cuore la stabilità.

Bisogna però ricordare cosa significa stabilità.

Significa conformità agli ordini americani.

Per esempio, una delle accuse mosse all’Iran, la grande minaccia alla nostra politica estera, è che sta destabilizzando l’Irak e l’Afganistan.

Perché?

Perché cerca di espandere la propria influenza sui paesi vicini.

Noi invece, all’opposto, quando invadiamo e distruggiamo un paese, lo «stabilizziamo».

Amo citare, per illustrare questo concetto, l’esempio offerto da James Chace, un esperto di politica estera molto conosciuto, progressista, già editor di Foreign Affairs.

Nel 1973, scrivendo del rovesciamento di Salvador Allende con l’imposizione della dittatura di Augusto Pinochet, ha detto che dovevamo «destabilizzare» il Cile nell’interesse della «stabilità».

Non era percepita come una contraddizione, e in realtà non lo è.

Dovevamo distruggere il sistema parlamentare cileno per poter ottenere stabilità, cioè perché sia fatto ciò che noi diciamo.

Quindi, sì, siamo favorevoli alla stabilità, in questo senso.

La nostra preoccupazione per l’Islam politico è della stessa natura della nostra preoccupazione per ogni sviluppo indipendente.

Dobbiamo avere paura di tutto ciò che è indipendente, perché potrebbe essere una minaccia.

Il che ha del comico, perché tradizionalmente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno sempre appoggiato il fondamentalismo radicale islamico (non l’Islam politico) in quanto forza atta a bloccare il nazionalismo secolare, che è la vera preoccupazione.

Per esempio, l’Arabia Saudita è il paese più fondamentalista del mondo, uno stato islamico radicale.

Ha una sorta di zelo missionario, nel senso che cerca di diffondere l’Islam radicale in Pakistan, finanziando il terrorismo in quel paese.

Eppure è un bastione della politica americana e britannica, che l’ha continuamente appoggiato contro la minaccia del nazionalismo secolare rappresentata dall’Egitto di Gamal Abdel Nasser e l’Irak di Abd al-Karim Qasim, tra gli altri.

Invece, l’Islam politico non è amato perché potrebbe diventare indipendente.

Il primo dei tre punti, il nostro desiderio di democrazia, sta all’incirca al livello dei discorsi di Stalin sull’impegno russo per la libertà, la democrazia e la libertà nel mondo.

È quel tipo di dichiarazione che ci fa ridere quando la sentiamo dai politici o dai preti iraniani, ma che accettiamo educatamente, anche con reverenza, quando a pronunciarla sono le loro controparti occidentali.

Il fatto è che il nostro «desiderio di democrazia» è una barzelletta di cattivo gusto.

Lo ammettono perfino studiosi importanti, anche se non esattamente nel senso che dico io.

Uno dei principali studiosi della promozione democratica è Thomas Carothers, un conservatore molto considerato, un neo-reaganiano, per intenderci, non un intellettuale di sinistra.

Ha operato nel Dipartimento di Stato di Reagan e ha scritto diversi libri sulla storia della promozione democratica, argomento che prende molto sul serio.

Bene, Carothers ammette che la promozione democratica sia un ideale americano profondamente radicato, ma dice anche che ha una storia strana.

La storia è che tutte le amministrazioni americane sono «schizofreniche», perché appoggiano la democrazia soltanto se si conforma a certi interessi strategici ed economici.

Carothers descrive questo come una sorta di strana patologia, quasi che gli Stati Uniti abbiano bisogno di un trattamento psichiatrico o qualcosa del genere.

È chiaro che c’è anche un’altra interpretazione, ma a un intellettuale istruito e per bene non può nemmeno venire in mente.

D. Pochi mesi dopo che in Egitto è stato rovesciato Hosni Mubarak, è stato messo sotto accusa e perseguito per reati criminali.

Per i leader americani è inconcepibile che possano mai essere chiamati a rispondere dei reati commessi in Irak o altrove.

Questo potrà mai cambiare, prima o poi?

R. È fondamentalmente il principio Yglesias: la base stessa dell’ordine internazionale è che gli Stati Uniti hanno il diritto di usare la violenza a proprio piacimento.

In queste condizioni, com’è possibile mettere sotto accusa qualcuno?

D. E quel diritto l’hanno solo gli Usa.

R. Bè, no.

L’hanno anche i nostri clienti.

Se Israele invade il Libano, uccide un migliaio di persone e distrugge mezzo paese, è tutto giusto.

D. Interessante.

R. Barack Obama è stato senatore prima di diventare presidente. Non ha fatto granché come senatore, solo un paio di cose, tra le quali una di cui era particolarmente orgoglioso. Sul suo sito web, prima delle primarie, dava rilevanza al fatto che durante l’invasione israeliana del Libano, nel 2006, aveva appoggiato una risoluzione del Senato in cui si chiedeva che gli Stati Uniti non ostacolassero le azioni militari israeliane finché queste non avessero raggiunto i propri obiettivi, censurando Iran e Siria perché appoggiavano la resistenza contro la distruzione del Libano meridionale (detto per inciso, era la quinta volta in venticinque anni).

In sostanza, Israele ha ereditato quel diritto.

E anche altri nostri clienti.

Il diritto, però, risiede a Washington.

È questo che significa possedere il mondo.

È come l’aria che si respira.

Non si può metterlo in discussione.

Il principale fondatore della teoria contemporanea delle relazioni internazionali, Hans Morgenthau, era una persona per bene, uno dei pochi politologi specialisti di affari internazionali che ha criticato la guerra in VietNam sulla base di considerazioni morali, non tattiche.

Una rarità.

Ha scritto un libro intitolato The Purpose of American Politics (Lo scopo della politica americana).

Diceva che l’America, a differenza degli altri paesi, ha uno scopo «trascendente»: portare libertà e giustizia al resto del mondo.

Essendo uno studioso serio, come Carothers, è andato a vedere come stanno le cose, si è documentato.

E ha detto che, a quanto risulta, gli Stati Uniti non sono stati all’altezza di questo loro scopo trascendente.

A quel punto, però, dice che criticare il nostro scopo trascendente equivale a «cadere nell’errore dell’ateismo, che con considerazioni analoghe nega la validità della religione», il che è un bel paragone.

Significa che siamo alla presenza di un sentimento religioso, profondamente radicato.

Tanto profondamente che sarà difficile districarsene.

Metterlo in discussione scatena reazioni quasi isteriche e genera spesso accuse di anti-americanismo, «odiare l’America» (concezione interessante, che non esiste nelle società democratiche, ma solo in quelle totalitarie e qui da noi, dove è dato per scontato).

 

 

traduzione di Roberto Ambrosoli