Kilometro Zero, ma ci credi davvero?

Di tutte le mode sciocche, le corbellerie politicamente corrette, le insulse religioni mondane di profeti del piffero, quella del kilometro zero è tra le più eminenti, perché condivisa ingenuamente da molti.

Una volta la gente semplice dava retta al parroco, ma diffidandone però in fondo con un po’ di giustificata malizia, mentre oggi  si beve beata ogni fiaba ecosostenibile, eco solidale e tutto quanto un mio un po’ trucido amico chiama “ecolc… che ci credo”.

Come tutti i luoghi comuni sbagliati, il km 0 si basa su alcune ovvietà.

Che a Battipaglia sia meglio cibarsi di mozzarella locale piuttosto che importata dalla Germania, ci sarebbe arrivato persino mio zio Achille, il più stupido da generazioni della famiglia (salvo poi, se a Trento trovi in commercio mele papuase a prezzi inferiori  a quelle locali, farsi qualche domanda sulla Politica Agricola Comune europea).

Se fosse tutto qua, basterebbero le leggi del buon senso e i costi del trasporto a risolvere il problema.

Ma il problema è ideologico, non pratico, e infatti delle conseguenze pratiche della filosofia km 0 i suoi esegeti si guardano bene del parlare.

L’importante è mettere sotto processo la globalizzazione, le multinazionali, la libertà d’impresa, e la presunta ottusità di un sistema che lascia al consumatore la libertà di scelta, invece cha affidarlo ad alcuni saggi benevolenti burocrati, austeri salutisti eco buongustai che, come ai bambini delle mense scolastiche, vogliono assegnarci a loro scelta la nostra porzione di formaggio o melanzana, acquistata da fornitore di loro garbo.

Cominciamo dalla cosiddetta “impronta ecologica”, e cioè le conseguenze sull’ecosistema (concetto vago, ma lasciamo perdere) di un sistema produttivo e distributivo globalizzato rispetto a quello a km 0.

Solo lo scemo del villaggio, o un intellettuale di sinistra,  può credere davvero che un sistema industriale ad altissima efficienza come quello attuale, a resi quasi zero, produzioni massive, trasporti e stoccaggio concentrati e ottimizzati su scala globale, possa essere più inquinante di un sistema “multilocale” con milioni di piccoli appezzamenti con scarti e resi enormi, produttività scarsa, qualità non controllabile, sistema distributivo parcellizzato, disperso e inefficiente.

Se contiamo i pesticidi necessari, i chilometri percorsi da un multiplo di piccoli trasportatori che uniscono innumerevoli produttori a innumerevoli  magazzinetti e punti di smercio, invece che da pochi enormi Tir che collegano pochi megamazzini a pochi ipermercati, l’energia consumata per la conservazione, la quantità di prodotti scaduti e gettati per impossibilità di programmazione accurata, è evidente che  il sistema a km 0 è ignobilmente più sporco di uno industrialmente avanzato.

Infatti nessuno dei poetastri zeristi ha provato a prosaicamente dimostrare non dico la verità, ma anche solo la plausibilità di una diversa ipotesi, pur belando sconsolati contro le scie chimiche degli aerei che portano prodotti d’oltreoceano.

Se volete dunque un pianeta meno inquinato, evitate i luoghi a km 0.

C’è poi ovviamente, conseguenza inevitabile del precedente, il banale ragionamento sui costi.

Banale, non per i borghesi blasé di Slow Food e altre conventicole da gregari del gusto e della solidarietà.

Chi, come capita nella vita a quasi tutti, e tutte in particolare, dopo la fase-Yoga, dopo la fase-cineforum, dopo le fasi cicloturismo, torte artistiche e decoupage,  avesse provato la fase-orto, cioè la umanissima e condivisibile passione per mangiare e marmellatarsi di fichi e zucchine di propria produzione, sa bene che se dovesse anche darsi stipendio da migrante per le ore dedicate alla coltivazione, raccolta ed eventuale lavorazione del lampascione fatto in casa, il prezzo finale del medesimo sarebbe almeno doppio di quello praticato da Peck, fornitore ufficiale dei milanesi afflitti da sindrome da autoflagellazione pecuniaria.

Per i molti ormai che con i mille € al mese devono campare davvero, la cucina povera del km 0 è un lusso inaccessibile.

C’è poi una contraddizione evidente, grossolana, macroscopica, sesquipedale, ovvia, palese che rende ipocrita e insostenibile la filosofia bolsa degli zerofili.

Questi stessi personaggi sono, e diamogli questa volta ragione, per la tutela dei prodotti tipici, di qualità, le cosiddette “eccellenze”, più o meno credibili ma transeat, della produzione locale artigiana alimentare.

E il bue di Carrù di qua, e il Bertelmatt di là, e la melanzana rosa di Topolinia e la oliva quadrata del Gulascia fino, in volonteroso sforzo eco equo solidale, alla lenticchia fosforescente del Belucistan,  la patata molle del Sahara, la birra calda di Tegucicalpa e così via.

Ma, tontoloni miei, e mi trattengo, come pensate che sopravvivano e prosperino queste eccellenze, se non con la esportazione, la contaminazione di altri mercati, l’invasione dei palati altrui attraverso catene distributive modernamente organizzate che fanno del NON km 0 la propria religione e missione ?

O forse che i castelluccesi, vietandosi l’esportazione, devono ingozzarsi ogni dì della loro nota lenticchia, e le gigantesche cipolle di Acquaviva ingolfare tutti e solo gli stomaci tra Brindisi e Bari, e i valtellinesi nutrirsi di pizzoccheri  a oltranza, fino a detestarli e ripudiarli e pagare a peso d’oro una pizza clandestinamente importata dai ben noti spalloni?

Il gongorzola va consumato nella omonima città, dove sia vietato il Camembert, per non dire del Bleu D’auvergne e lo Stilton?

Allevino maiali e producano culatelli gli emiliani, e se li mangino tutti loro, e  vada chi può sui monti iberici se si vuole gustare l’a mio avviso assai migliore pata negra bellota?

Volete che lo strachitunt bresciano rinasca e prosperi, ma vietarne l’acquisto in Piemonte dove si produce il Castelmagno?

I carciofi pugliesi restino là, e se ne provi a Cernusco la coltivazione, che saranno certamente squisiti.

Per non parlare poi del vino: spariamoci subito noi milanesi, obbligati a bere l’acquoso San Colombano, unico prodotto della provincia, che si cerca sempre di dire dai non è così male ma che io conoscendolo rifiuto di acquistare.

Ondata di emigrazione nello Champagne da prevedersi, mentre in Bretagna si abbandonerà presto la coltivazione delle ostriche, che dopo un po’, dodici al giorno tutti i giorni, oggettivamente stufano e non credo facciano poi nemmeno gran bene.

E’ la logica protezionista portata all’estremo, che si indigna a volte se non ci aprono i mercati ma ulula sempre se qualcuno viene in casa nostra a portarci qualcosa di migliore per tanti che dà fastidio a pochi.

La logica Trabant, o Fiat se preferite, che persino gli ottusi leghisti vogliono riportare d’obbligo addirittura con il km 0 nelle forniture di servizi ai comuni: favoriamo il pigro maldestro imbianchino all’angolo, che poi mi vota, mica quel fesso del paese dopo, che si alza prima, si paga la benzina, lavora più in fretta e meglio a minor prezzo ma poi mica lo posso chiamare a sistemare la casa dell’assessore.

Si tratta quindi di una filosofia sciocca, contraddittoria e controproducente. Ma ciò che più disturba è la sua ragione di fondo, l’odio per il commercio, lo scambio, il cambiamento, l’apertura al confronto, la libertà di scelta di ciascuno.

Qui non c’è il saggio conservatorismo di Prezzolini, che diceva di preferire il puzzo di casa propria al profumo di quelle altrui (ma andò poi a vivere a Lugano e negli Stati Uniti).

C’è la voglia di qualcuno di volerci “fare felici a modo suo”, che già Gobetti aborriva, e l’ignoranza di ciò che ricordava Bastiat, che dove non passano i commerci passano gli eserciti.

Il politicamente corretto vuole che apriamo le nostre porte ai libici emigranti, ma che le chiudiamo alle noci di Benevento o fossero anche australiane, e alla buona birra dei belgi.

Valli a capire, ma il comun denominatore è che dà fastidio che ognuno compri, consumi, scelga, produca, accolga secondo il proprio gusto personale, e pagando egli stesso il prezzo che intende pagare avendo pure ampia scelta.

Il commercio, la libertà di scegliere, di confrontare, di selezionare e premiare ciò che è migliore giova alla salute, alla cultura, al portafoglio della gente.

I profeti del mercatino fuori porta, della zucchina asfittica cresciuta nel garage si meritano quell’aria dimessa, macilenta, triste,  penitenziale, grigia e orrenda che caratterizza spesso l’intellettuale progressista.

Acciughe della Cantabria, jamon serrano, pollo di Bresse, fontina valdostana, pecorino sardo, melanzana avellinese, calvados del calvados, a me !

All’attacco!

Gianbattista Rosa